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Capolavori in libera uscita
di Tomaso Montanari
30 gennaio 2013, il Fatto Quotidiano

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Oggi, a New York, Christie’s batte «uno dei più importanti ritratti del Rinascimento ancora in mani private» (così il catalogo): uno strepitoso ritratto di un giovane che alza il volto dal suo libro per guardarci negli occhi. Un’opera rarissima, dipinta poco prima del 1530 da un Bronzino ancora immerso nello stile del suo visionario maestro, Pontormo.
Perfino «Forbes» ha dedicato spazio al giovane fiorentino dai capelli rossi, perché il suo prezzo lo rende un fenomeno più finanziario che artistico: si parte da una base d’asta che va da 12 a 18 milioni di dollari.
Ma la curiosità non riguarda tanto chi se lo comprerà (c’è da sperare che sia un museo, cosicché il quadro sia visibile), ma come e quando un’opera del genere sia uscita dall’Italia.
Fino almeno al 1956 il dipinto è attestato nella collezione fiorentina dei principi Corsini. Nel 1996 sei membri della famiglia vennero processati per aver esportato clandestinamente opere assai preziose attraverso triangolazioni con banche svizzere e case d' asta londinesi. Mentre gli antiquari che avevano portato all’estero le tele (tra le quali un Rubens finito al Getty di Los Angeles) vennero condannati, gli aristocratici furono assolti perché si ritenne inefficace il vincolo. Il catalogo di Christie’s si sforza in tutti i modi di far dire alla letteratura scientifica che il Bronzino sarebbe uscito da Palazzo Corsini già negli anni Venti: un’excusatio non petita che ha messo in sospetto più di un osservatore, anche perché il quadro è stato restaurato a Figline Valdarno nel 2010.
Come e quando il dipinto ha lasciato l’Italia? E lo ho fatto legalmente? Non ci sono elementi per dubitarne, ma non si riesce ad immaginare come un quadro del genere abbia potuto avere un attestato di libera circolazione da una soprintendenza italiana.
L’emorragia di opere d’arte dall’Italia è inarrestabile. Molte escono illegalmente (e poi rientrano in ‘importazione temporanea’), ma altre scivolano tra le maglie degli uffici esportazione: che, come tutti gli organi delle soprintendenze, sono privi di mezzi e non messi in condizione di lavorare. Qualche mese fa proprio il «Fatto» ha denunciato l’esportazione di una tavola del trecentesco Simone dei Crocifissi, esposta in una chiesa di Bologna ancora nel Seicento: in quel caso il permesso – incredibilmente – c’era. E un mese fa Fabio Isman ha denunciato sul «Messaggero» un’altra inspiegabile ‘fuga’ di un quadro importante: un probabile Ribera giovane che era nella casa di Perugia in cui si trovava fin da metà Seicento, e che il Metropolitan di New York si è subito (giustamente!) comprato. Ma anche in quel caso era tutto in regola: l’ufficio esportazione di Venezia aveva (assurdamente) dato il via libera.
Se il Ministero per i Beni culturali non fosse una perpetua sede vacante, questa sarebbe una materia su cui intervenire attraverso direttive chiare e una gestione trasparente e severa. Nel caos attuale, un’opera bloccata dall’ufficio esportazioni di Milano può benissimo uscire da quello di Firenze, e mentre spesso si questiona sull’esportazione di opere del tutto secondarie, vediamo allegramente migrare veri capolavori.
Ma la materia è incandescente. Basti dire che a Roma è appena iniziato il processo per abuso d’atti d’ufficio alla Direttrice dei Beni culturali del Lazio, Federica Galloni, accusata di non aver apposto il vincolo ad un preziosissimo mobile settecentesco per la cui licenza di esportazione l’intero Mibac era stato messo sotto pressione, con gli avvocati dei proprietari che riuscivano ad introdursi perfino negli organi tecnici del Ministero con la benedizione dell’attuale sottosegretario ai Beni culturali, Roberto Cecchi. Ebbene, a processo aperto la fondazione proprietaria del mobile è tornata, candidamente, a chiedere il permesso di esportazione, incalzando l’ufficio di Roma, che per fortuna è diretto da una funzionaria ligia alla legge e agli interessi dello Stato.
Ma perché è così importante vegliare con rigore sulla fuga delle opere d’arte? Fin dal tardo Cinquecento si fa strada, in Italia, l’idea che il patrimonio non sia la somma di tante singole opere scollegate, ma un organismo complesso che tanto più è vivo e comprensibile, quanto più è integro. Nel 1603 il granduca di Toscana emise un bando che proibiva l’esportazione delle pitture di alcuni artisti. In una specie di embrione del sistema delle soprintendenze, Ferdinando de’ Medici affidava l’applicazione della norma ai tecnici, cioè agli artisti e agli intendenti dell’Accademia del Disegno. E cosa, importantissima, il canone degli artisti da salvare non era toscano, ma italiano: così come oggi non conta la nazionalità dell’artista o dell’opera, ma la sua collocazione in Italia e la sua importanza storica e artistica (per questo tuteliamo anche un Rubens, o una commode Luigi XV, se lo meritano). Dal tempo di Ferdinando I ad oggi la questione della esportazione è stata centrale: lungo il Seicento sia i papi che la Repubblica di Venezia emisero leggi severe, e prima le spoliazioni napoleoniche, poi la dissoluzione delle grandi gallerie nobiliari romane hanno portato ad uno straordinario affinamento della consapevolezza e degli strumenti della tutela italiana.
È importante sottolineare che fin dal dettato del bando del granduca Ferdinando, l’onore della città e «dell’universale» (oggi diremmo il bene comune) facevano premio sulla proprietà privata, che veniva decisivamente limitata: proprio come vuole l’articolo 9 della Costituzione, per cui il patrimonio appartiene a titolo di sovranità alla nazione, a chiunque spetti la proprietà legale delle singole opere.
Quando a New York va all’asta un pezzo così importante della nostra memoria e della nostra identità è doveroso ricordarsi di tutto questo. La legge, la cultura e la storia hanno dei diritti anche al tempo dell’onnipotenza del dio Mercato: ma devono difenderli con i denti.



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