VENEZIA - Quando la soprintendente era seria e incuteva terrore 17 agosto 2014 la Nuova Venezia
PUNTURINE di Roberto Bianchin
C’era una volta, parecchi anni fa, una signora dall’età indefinibile e dall’aspetto severo, il cui nome incuteva terrore soltanto a pronunciarlo. Lavorava e viveva nella città che fu Serenissima. Era seria, rigorosa, intransigente. Nel fare come nell’apparire. Vestita all’antica, come una maestra di scuola di altri tempi. Poche parole, rarissime interviste, tivù praticamente mai, bacchettate sulle mani molte. Senza guardare in faccia nessuno. Si chiamava Margherita. E aveva il destino scritto nel cognome: Asso. Nomen omen, mai fu più vero di così. Faceva la soprintendente ai monumenti nella città più delicata e più difficile del mondo. E lo faceva con tale rigore che la chiamavano la Thatcher della laguna. Molti veneziani la adoravano. Perché da lei si sentivano protetti. Perché era la custode inflessibile della città, della sua storia millenaria e della sua insopportabile bellezza. La vestale del tempio. Perché non lasciava attaccare nemmeno una puntina da disegno. La detestavano gli affaristi. Quelli pronti a speculare su ogni cosa per denaro. A devastare ogni cosa, a costruire qualunque cosa, non importa cosa. Guarda come cambia le cose - non sempre in meglio - il tempo che passa. Le soprintendenze, che una volta erano solo ai monumenti (e bastava per far capire, ogni angolo d’Italia è un monumento), oggi hanno adottato mille nomi fantasiosi: soprintendenze ai beni storici, artistici, ambientali, culturali, architettonici, paesaggistici, persino ai beni “etnoantropologici” (non è uno scherzo, esiste davvero!). E per lo più, sarà il tempo che passa, sarà la mutazione dei costumi, invece di proteggere il Belpaese contribuiscono anche loro a devastarlo. Il che è molto più grave. Prendete, ad esempio, la soprintendenza ai beni di qualcosa della città che fu dei Dogi, che ha buchi larghi come un formaggio di gruviera. Buchi dove passa di tutto. Dove vengono autorizzati, chissà come mai, i peggiori obbrobri. Come gli orribili lampioni spuntati in questi giorni al Lido nel piazzale di Santa Maria Elisabetta già devastato da un restauro demenziale e da quei pontili allucinanti, anche questi incredibilmente autorizzati da una soprintendenza fuori controllo: freddi e spettrali croci di ferro al posto dei vecchi, delicati lampioni in vetro di Murano a forma di fiore. Da condannare all’esilio progettista e soprintendente. L’elenco dei guasti, del resto, è lungo. L’ineffabile soprintendenza lagunare non ha avuto niente da dire su storici palazzi sventrati e trasformati in locande, su antiche dimore divenute affittacamere e lupanari, su bar e ristoranti aperti dove non si potrebbe, su alberghi leggendari come il des Bains distrutti per ricavarne appartamenti (fortuna che l’operazione è fallita), su lavori imponenti che hanno devastato la laguna (dicono che non è loro competenza, ma mare e laguna non sono beni ambientali?), su progetti deliranti come l’imbarazzante ristrutturazione del Fontego dei Tedeschi avviata grazie alla complicità di una soprintendentessa arruolata nelle vesti di consulente, prima che si scoprisse che il suo nome, ahinoi, era stato inserito “per errore” nella lista dei prestigiosi collaboratori dello scempio. Ma guarda! Altro che Senato, Province, Prefetti. Per quel che servono, meglio che il boy scout che governa il Belpaese pensi ad abolire le soprintendenze. Tanto, in città come Venezia, è già venuto meno ogni tipo di controllo. Al punto che sulle spiagge non circolano più soltanto i vu’ cumprà (niente ipocrisie, si chiamano così da sempre), ma giganteschi negozi ambulanti di stracci lunghi quattro metri (visto al Blu Moon). Ha ragione il signore che passeggia per via Garibaldi con una maglietta a lutto: “Grazie politici, Venezia xe un casìn”. r.bianchin@repubblica.it
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