Il governo mette all'asta i beni culturali. E i privati potranno farne fast food intervista a Massimiliano Santi raccolta da Barbara Romagnoli Carta settimanale numero 20
CASTELLI, monumenti, musei, parchi, palazzi storici: tutte le opere d'arte che finora abbiamo sentito anche un po' "nostre", saranno ufficialmente in vendita al miglior acquirente. Un modo per far tornare i conti dello Stato, con il solito provvedimento d'urgenza. Il decreto Tremonti, approvato dalla Camera venerdì scorso, senza sostanziali modifiche, dispone, infatti, "la valorizzazione, gestione ed alienazione del Patrimonio dello Stato". Sarà possibile farlo grazie una normativa che stravolge un principio guida finora consolidato, ossia la tutela e l'accrescimento del patrimonio artistico e culturale dello Stato, e che attenua i vincoli sulla destinazione d'uso dei beni culturali, che saranno ceduti ai privati. Nel caso della vendita non è prevista neanche l'autorizzazione della sovrintendenza regionale ai beni artistici. "È tutto un gioco di scatole e vasi comunicanti", spiega Massimiliano Santi, consigliere provinciale di Rifondazione comunista, a Roma, della commissione cultura del partito, "perché il decreto si inserisce in una situazione avviata dalla legge 401 del 2001, con la quale è stato messo in vendita il patrimonio immobiliare degli enti pubblici, che già prevedeva la possibilità di mettere le mani sui beni artistici e culturali. Inoltre, c'è l'ennesima legge delega, che riguarda il riassetto e la codificazione in materia di beni culturali e ambientali [e anche spettacolo, sport, proprietà letteraria e diritti d'autore, ndr.]". Quali sono gli strumenti concreti per dare il via alla privatizzazione di questi beni? Il decreto legge prevede la costituzione di due società per azioni. La prima è la Patrimonio dello Stato Spa, che è quella che può effettuare operazioni di cartolarizzazione sui beni artistici e culturali, ossia emette titoli e obbligazioni, e in questo modo il bene è ridotto a merce e può essere commercializzato anche nei mercati finanziari esteri. Questa società, le cui azioni dovrebbero essere detenute direttamente o indirettamente dal ministero delle Finanze, può trasferire a titolo gratuito la totalità delle azioni o alla Cassa depositi e prestiti, sempre del ministero, o alla seconda società che verrebbe a costituirsi, ossia la Infrastrutture Spa. Oltre alla cessione gratuita delle azioni, la Patrimonio Spa può cedere a Infrastrutture spa anche una parte del patrimonio. Infrastrutture Spa serve a trovare e spendere soldi per finanziare opere pubbliche e investimenti per lo sviluppo economico, ma concede anche garanzie. E c'è da considerare che anche i flussi di indebitamento a medio e lungo termine sono stabiliti dal ministero delle Finanze. La cessione dei beni culturali andrà quindi a finanziare le grandi opere di Lunardi… È evidente, anche perché la Infrastrutture Spa concede garanzie, perciò il bene artistico e culturale diventa l'ipoteca per i prestiti che la stessa società chiede alle banche o ad altri finanziatori. Se non viene conclusa la grande opera, il bene dato in garanzia passa al finanziatore esterno. Quindi, anche in termini economici si tratta di una manovra che nasconde una doppia perdita, perché i contabili del governo calcolano nel bilancio un attivo che non c'è, e poi, se le infrastrutture non saranno terminate secondo contratto, lo Stato perderà definitivamente i beni del patrimonio artistico dati in garanzia. Ma il privato può fare come vuole? Non è previsto un recupero di questi beni? Ad oggi, con il testo unico 490 del '99 e la specifica normativa sui beni artistici e culturali, esistono due elenchi che dividono il patrimonio inalienabile in due parti: quello la cui gestione può passare a privati e quello che non può essere venduto. Non sappiamo ancora, per via della legge delega, quali saranno e se ci saranno dei beni esclusi da questa compravendita. E comunque, anche nell'eventuale rivendita del bene, una volta che lo Stato lo abbia perso, c'è un articolo nella legge del 2001 che non prevede diritto di prelazione degli enti locali. Un giapponese avrebbe la meglio, per esempio, sulla regione Toscana. Ma se il giapponese si compra il Colosseo, non potrà farci una discoteca… Anche questo non si sa, ma non è escluso, perché con la precedente legge, la 410/01, vendute le case degli enti, il cambio destinazione d'uso, da case a uffici, è avvenuto. E nel decreto non c'è alcun accenno alla disposizione o al profilo d'uso. In teoria dovrebbe rimanere la fruibilità pubblica del bene artistico, ma nella legge delega c'è scritto che l'aggiornamento degli strumenti di conservazione e protezione dei beni avverrà "senza ulteriori restrizioni alla proprietà privata". Quindi è chiaro che ci sarà una totale apertura ai privati, e la riduzione di investimenti pubblici per la tutela. C'è poi la questione della ripartizione delle competenze con le regioni, e qui si chiama in causa la riforma federalista: bisogna capire fino a che punto la tutela passerà agli enti locali e quanto tutto questo andrà a scontrarsi con la pianificazione urbanistica, che di nuovo compete alle regioni. Traducendo in moneta, quanto vale tutta questa operazione finanziaria? Nessuno può comprendere la portata di una manovra del genere, perché non si capisce fin dove arriveranno le alienazioni, e il patrimonio artistico e culturale del nostro paese è enorme. L'Italia, insieme a Spagna, Portogallo e Grecia, è il paese dove maggiore è stata l'attenzione alla protezione e tutela di beni artistici, che non sono solo le opere d'arte in senso stretto. Le due società nascono con un capitale sociale di un milione di euro, che non è tantissimo, però poi gli aumenti di capitale vengono rinviati a futuri decreti del ministero delle finanze. In altri paesi, per esempio il Belgio, la privatizzazione è avvenuta. Il problema è se la circolazione dei beni artistici sia solo un mezzo per fare più soldi oppure uno strumento per arricchire la formazione di tutti i cittadini. http://www.carta.org/rivista/settimanale/2002/20/20asta.htm
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