I veneziani alla battaglia finale per la loro «civiltà» di Raffaele Oriani 18 ottobre 2016 la Repubblica
Dopo un'estate di tuffi dai ponti e bidet nei canali, ritorno nella città assediata. Dove i nemici non sono solo i turisti, ma anche chi vorrebbe ridurla a una nuova Pompei
VENEZIA. I bei tempi di quando si andava tutti a destra. No, non è nostalgia politica, ma il ricordo di una viabilità a misura di veneziano. Nelle calli non c'era bisogno di chiedere permesso in esperanto, e ognuno sapeva come avanzare a passo spedito e nella «carreggiata» giusta. Oggi siamo allo slalom en ralenti: «Sui ponti tocca farsi largo a spallate» ammette una delle ultime 55.069 veneziane doc. «I turisti sbuffano, ma non capiscono che per noi è come avere a che fare con una coda di macchine perennemente a 20 all'ora». Venezia vive di turismo, ma mai come in quest'ultima estate di grandi folle, tuffi dai ponti e canali scambiati per bidet, i veneziani si sono resi conto che – se non fermano la crescita esponenziale dei flussi – di turismo sono destinati a morire.
«Per capire cosa sta accadendo mi basta guardare alle Fondamenta dove sono nato» dice il quarantenne Nicola Tognon. «L'ufficio postale è diventato Carnival Palace, Ca' Cendon ospita un bed & breakfast, dove ora c'è l'hotel Tre Archi abitava un'amica di mia mamma, l'hotel Dogaressa fino a qualche anno fa era un condominio, palazzo Nani accoglieva una scuola e sarà presto un albergo, palazzo Manfrin è stato appena "alienato" dalla Regione e indovina cosa ci faranno». Nicola è uno degli oltre 30 mila pendolari che, pur lavorando in città d'acqua, fanno spazio ai turisti dormendo in terraferma. In un'animata assemblea nel sestriere di Castello, prende la parola e dice che se non si fa qualcosa «la nostra civiltà è destinata a scomparire».
Non città, civiltà: i veneziani sentono di essere alla battaglia finale, e tremano quando il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini li mette in fila con «Pompei, Colosseo e Uffizi», o l'aspirante direttore generale dell'Unesco si impegna solennemente a salvare «Venezia ed Ercolano». Non siamo calchi di gesso, sembrano dire, e Marco Gasparinetti – mente e cuore di Veneziamiofuturo, l'iniziativa che, di sestriere in sestriere, sta dando voce a chi non si rassegna alla Disneyland lagunare – sottolinea lo spiazzante human factor che preme dietro le preoccupazioni per chiese, case e fondamenta: «Venezia deve tornare a essere una città in cui poter restare, rientrare e trasferirsi».
Si dà per scontato che Venezia siamo noi. Noi coreani che sgraniamo gli occhi per la prima volta, noi tedeschi in cerca di corti sconte (cioè nascoste), noi americani di casa al Danieli, noi milanesi che visitiamo la Biennale. Siamo 24 milioni all'anno (ma c'è chi autorevolmente sostiene almeno 30), al 70 per cento escursionisti giornalieri e al 30 per cento alloggiati in 18 mila posti letto in hotel, e 14 mila in bed&breakfast, affittacamere e case private. Nella città storica la sola ricettività extralberghiera è cresciuta del 10 per cento dal 2014 al 2015, e i soli appartamenti offerti sul portale Airbnb sono quasi raddoppiati nell'ultimo anno raggiungendo quota 3.950.
«Il mio ex ufficio sul Canal Grande oggi è una doppia con bagno» chiarisce il trend una dipendente dell'azienda dei trasporti. Ma non è sempre stato così? La Serenissima è meta di turisti da quando non è più culla di mercanti, ma l'architetto Giorgio Omacini del Gruppo 25 aprile ricorda quand'è iniziato il nuovo corso: «Fino alla riesumazione del Carnevale negli anni Ottanta, a Venezia la stagione turistica durava da marzo ad agosto, settembre era il mese dei ricchissimi e poi si mettevano le gondole in secca e magari si andava a lavorare in fabbrica fino a primavera».
Oggi il Comune illustra online le tariffe della sua tassa di soggiorno: bassa stagione dall'1 al 31 gennaio, alta stagione tutto il resto. È anche per questo che nel giugno 2014 il Comitato per il patrimonio mondiale dell'Unesco sollecita l'Italia a sviluppare un piano per il turismo sostenibile. Con risposta datata 30 novembre 2015 il nostro ministero dei Beni culturali annuncia «una strategia per ridurre la pressione del turismo». Guardando scorrere davanti a San Marco i 2.500 passeggeri, gli undici ponti e le 78 mila tonnellate della Vision of the seas, non è semplice capire a cosa si riferisca. Se noi siamo sempre in giro, loro si vedono sempre meno: i veneziani erano quasi 100 mila all'inizio degli anni Ottanta, 66 mila a fine millennio e stanno prendendo congedo da quota 55 mila in questi giorni. Per Lidia Fersuoch, che alla testa di Italia Nostra diffonde da anni conoscenza e militanza su laguna, grandi navi e ipertrofia turistica, questi numeri sono ormai esperienza di tutti i giorni: «La prima volta è successo cinque anni fa a Santo Stefano: mi guardo in giro, scandaglio la folla e capisco di essere l'unica veneziana in tutto il campo. Mi creda, è stato piuttosto straniante, e da allora mi accade sempre più spesso».
Non siamo lontani da Rialto, ci guardiamo intorno, anche qui Fersuoch non riesce a incrociare lo sguardo di un concittadino. È un problema? O piuttosto un segno di grazia, se non altro economica? Il fatto è che tra i tesori di Venezia c'è anche il suo modo di vivere: un ragazzino col suo zaino rientra da scuola a remi, un muratore «cuce e scuce» mattoni impregnati di salsedine, un professionista aspetta il week end per imbarcarsi verso la laguna nord dove «tutto sembra dovere ancora iniziare». È una civiltà anfibia, e la paura di perderla si diffonde a macchia d'olio contagiando anche i più giovani: «Ho smesso di pensare in termini di destra e sinistra» dice il ventitreenne Gianpietro Gagliardi, leader del network di ragazzi Generazione ‘90. «L'unica differenza che conta è quella tra chi succhia i soldi e chi ha a cuore il bene della città».
Di turismo vivono in tanti, ma in molti hanno capito che l'indigestione non è una strategia di lungo termine: quando hanno lanciato l'idea di una passeggiata da veneziani lungo il condotto turistico che dalla stazione porta a San Marco, Gagliardi e i suoi amici pensavano di fare massa critica con una cinquantina di sodali. Lo scorso 10 settembre si sono ritrovati in mille, e «Ocio ae gambe che go el careo» è diventato uno degli slogan più gettonati della reazione autoctona alla dilagante presenza dei «foresti». In città storica i negozi vendono lusso o souvenir, i vaporetti sono sempre stracolmi, gli annunci immobiliari parlano direttamente in inglese. Ma per gli indigeni non c'è nulla? «A Venezia è sparita la classe media» spiega Marco Gasparinetti di Veneziamiofuturo. «La bolla delle locazioni turistiche fa sì che se la possano permettere solo i molto ricchi, o i meno abbienti che concorrono agli alloggi popolari».
Perché a Venezia il lavoro c'è, i servizi meno, la casa per niente: all'ultimo bando di 70 alloggi in social housing a Cannaregio hanno presentato domanda in 400, mentre gli sfratti viaggiano al ritmo di quasi due al giorno e negli ultimi cinque anni almeno mille abitazioni hanno ottenuto il cambio di destinazione d'uso da residenziale a ricettiva. È il mercato bellezza: la trasformazione in camera d'albergo triplica il valore del metro quadro, mentre chi affitta ai turisti guadagna il doppio di chi affitta agli studenti, che già ha un bel ricarico su chi si ostina semplicemente ad affittare. Sarà il mercato, ma a Venezia rischia di far fuori una civiltà: il governo italiano è stato nuovamente sollecitato dall'Unesco ad attivarsi a favore di Venezia e della sua laguna. Ci sono grandi navi da cacciare, moto ondoso da contenere, scavi e cantieri da bloccare. Ma anche una minuzia come la detassazione di chi affitta ai residenti sarebbe molto apprezzata. A Roma se il centro storico è troppo caro, si cambia quartiere. A Venezia tocca trasformarsi da splendidi anfibi in semplici terrestri
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