Tuscania, la città etrusca rinata come una scenografia Philippe Daverio Corriere della Sera 19/8/2019
Fra il lusco e il brusco, ricompare sempre l’etrusco. Si cela ovunque nelle terre d’Italia Centrale, nei misteri dell’Umbria, nei confini con le terre greche di Partenope e di Paestum, dalle parti di Bologna e forse addirittura nell’alto Veneto, ipotesi sostenuta recentemente con acume dall’archeologa Luisa Bertacchi.
Era probabilmente irrequieto l’etrusco. Ma dove appare ancora misteriosa l’ombra sua è in quelle colline arcane fra Tarquinia, città dei primi re di Roma, Vulci e Tuscania, in quella Tuscia meridionale dalla quale partiva la via Clodia, tagliata nella gola stretta nel tufo che porta alle tombe di Norchia.
Lì le architetture scavate nella roccia evocano timpani di templi greci e il fondo delle tombe si conclude con la sagoma della porta che apre sull’al di là.
«Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, con gli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille, il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso. Ma rimase seppellito, il solitario orgiasta, nella propria favola luminosa. Benché la gran madre ne custodisca un ricordo così soave che, dove l’Etruria dorme, la terra non fiorisce più che asfodeli». Così scriveva nel secolo scorso, ultimo degli etruschi, il poeta Vincenzo Cardarelli.
Turning Disaster into Opportunity è tema classico dei libretti popolari di management, quelli che offrono per pochi dollari la strada verso il successo. Ma è pure ciò che è avvenuto alla cittadina di Tuscania dopo il terribile terremoto che la distrusse il 6 febbraio del 1971.
Le superfetazioni povere degli anni postbellici vennero eliminate, l’alluminio anodizzato scomparve dalle facciate, le mura esterne del centro storico con le loro torri furono liberate da ogni piccola costruzione parassitaria. L’abitato nuovo, con la confusa estetica che contraddistingue oggi quasi tutta l’Italia, fu collocato nella campagna adiacente.
Oggi l’orizzonte che delinea la città antica è un esempio di perfezione paesaggistica, un miracolo arcano che appare come un miraggio al viaggiatore, dove la massa urbana dialoga in un garbato contrappunto con la collina sulla quale svettano la torre della chiesa di San Pietro e i ruderi del castello del Rivellino.
L’imponente edificio di culto fu sede del vescovado fino al XVI secolo ma deve il suo aspetto ad un momento apicale dell’architettura romanica, quando questa ancora si contrapponeva quanto il papato alla nascente architettura gotica degli Angiò.
La facciata è un libro da leggere con attenzione, nel rosone fuori dalle abituali dimensioni, nei marmi bianchi istoriati da una misteriosa abilità. Vi si legge a sinistra il paradiso futuro, premio d’una vita santificata, e a destra ovviamente l’opposto, il destino infernale.
Il diavolo merita sempre una certa attenzione, ma qui appare ben due volte, sopra e sotto un’elegante bifora cosmatesca, e sfoggia ogni volta tre profili al contempo, come le teste di Cerbero guardiano degli inferi, mentre nelle volute fitomorfe che aggirano la sua triplice effige appaiono le capsule del papavero, non quello dei campi di grano, bensì quello da oppio che già Orfeo forniva alle anime dell’aldilà per dimenticare nel sonno le passioni della vita passata.
Se poi si trova il viandante scosso da una simile interpretazione del proprio futuro, basta che scenda di poche centinaia di metri verso la chiesa di Santa Maria Maggiore dove potrà rivedere un diavolo già ben più a norma, cornuto e infuocato, in un affresco che risale al quattordicesimo secolo. |