New York. "E mentre il mondo alza i muri il mio Metropolitan apre le porte" Fiamma Arditi La Stampa. 23/'8/2019
Lo ha chiamato per gioco «Nics». In inglese suona come Knicks, la squadra vincente di pallacanestro di New York. «Era un working title, ma nessuno se ne è accorto, così è rimasto», spiega Marco Leona, 52 anni, piemontese di Ivrea, direttore scientifico del Metropolitan Museum dal 2004, quando Philippe de Montebello, allora direttore, lo chiamò per creare il Department of Scientific Research. Nel suo studio al piano inferiore del museo, attrezzato di avanzate apparecchiature per l'analisi e la tutela delle opere d'arte di ogni tempo e provenienza, Leona ci accompagna nel viaggio. Il gruppo di scienziati, oggi quattrodici, tra cui due giovani italiane, Federica Pozzi ed Elena Basso, non solo lavorano alle opere del Metropolitan, ma anche a quelle di altri dieci musei della citta, tra i quali il Guggenheim, il MoMA, il Whitney, la Frick Collection, la Morgan Library, l'Hispanic Society, la NY Public Library. Ognuna di queste istituzioni ha al suo interno il proprio laboratorio di restauro, ma si rivolgono al Nics per la sofisticata analisi scientifica. Il tutto è gratuito, grazie al sostegno finanziario della Mellon Foundation, che ha stanziato 50 milioni di dollari da distribuire nell'arco di quindici anni e di donatori privati.
«L'idea di creare questo network di musei mi era venuta quando andai all'Università di Perugia per una conferenza dedicata al MoLab, un laboratorio di restauro mobile creato da un network di istituzioni europee», spiega Leona. Tra queste ci sono, oltre all'Università di Perugia, quella di Bologna e il Trinity College di Dublino, ma anche il museo del Louvre, la National Gallery di Londra, il Museo Archeologico di Napoli. Tornato a New York, Leona, con gli scienziati del Dipartimento Scientifico del museo si è messo al lavoro per realizzare un progetto analogo, e nel settembre del 2016 ha dato il via al Nics, vale a dire la Network Initiative for Conservation Science. A sostenerlo nell'ambiziosa iniziativa erano sia il direttore del museo, Thomas Campbell, sia i finanziatori, che gli hanno dato carta bianca. Così l'avventura è cominciata. Il 24 ottobre prossimo si terrà il terzo Simposio al quale parteciperanno colleghi di musei e università di New York. Max Hollein, l'attuale direttore austriaco del Met, vorrebbe che la struttura creata da Leona potesse impegnarsi a livello globale. In tempi in cui i leader del mondo sono occupati ad alzare muri e creare barriere, la politica silenziosa di istituzioni dell'arte come questa è quella di aprire le porte, condividere, far conoscere. «Questo è un posto dove le culture si incontrano», sottolinea Leona, «l'unicità del Met è di passare dall'arte dell'antico Egitto a quella di Grecia, Roma, Asia, Oceania, Native American, ma anche quella coloniale e quella contemporanea». Parla con calma, ma traspare dalla voce dello scienziato piemontese quanto sia fiero di fare parte di una istituzione che gli consente di esplorare nuovi terreni e mettere la sua conoscenza scientifica al servizio di un patrimonio che non appartiene a un solo Paese o a una istituzione, ma all'umanità. Leona seleziona e coordina giovani scienziati a cui indica il cammino. «Il nostro è un lavoro molto collaborativo», ci tiene a sottolineare. «Da quando sono qui ho avuto centottanta visite da licei e università come Barnard, Columbia, City College. I tre quarti sono donne e il dieci per cento viene da minoranze latine e afroamericane». Quando approdano al Department of Scientific Research vedono l'applicazione pratica di quello che studiano e lavorano su opere d'arte che attraverso la scienza possono essere comprese.
«Siamo l'unico dipartimento a collaborare con tutti gli altri», sottolinea. Il suo raggio d'azione, oltre che all'analisi scientifica e allo stato di ogni opera, arriva allo studio del clima e della luce nelle gallerie, ai materiali usati per esporre le opere e allestire le mostre, a quello degli insetti. Sì, perché con i prestiti delle quindicimila opere arrivate da tutto il mondo per realizzare ogni anno una media di sessanta mostre, e i sette milioni di visitatori, il museo è invaso da una popolazione invisibile di microbi e batteri.
Man mano che Leona parla si espande il campo d'azione di questo ramo del museo, tanto segreto quanto necessario, che protegge e fa vivere di nuova vita le infinite opere della propria collezione. La scelta di coniugare scienza e arte la fece nel '94, durante il dottorato in chimica all'Università di Pavia. Il 21 febbraio di quell'anno il professor Giacomo Chiari, che poi sarebbe diventato direttore scientifico del Getty Museum, fece una conferenza sugli studi cristallografici del Giudizio universale di Michelangelo. Mentre racconta, mi mostra, appesa alla parete dietro di lui, la locandina di quell'evento, che ha dato una svolta al suo futuro. Sto per congedarmi. «Un attimo», dice, mentre tira fuori da uno scaffale Fuji rosso, una delle 36 stampe di Hokusai, realizzate alla fine del periodo Edo. «Noi abbiamo tutta la serie, ma la più famosa è La grande onda». Tira fuori anche questa. «La nostra copia è la più bella al mondo». A dieci anni ne aveva visto la riproduzione sulla Piccola Enciclopedia Garzanti. L'immagine di quell'onda gigante che minacciava tre esili barche e rifletteva i raggi del sole emanando scintille di luce aveva colpito la sua fantasia di bambino. Oggi la tecnica avanzata di quell'opera appassiona la sua conoscenza di scienziato. |