Libero riuso delle riproduzioni di beni culturali: articolo di Daniele Manacorda sul "Giornale dell'arte"
Vi segnaliamo che nel numero di dicembre 2019 del "Giornale dell'Arte" è stato pubblicato un articolo di Daniele Manacorda, dal titolo "Libero riuso delle riproduzioni di beni culturali. Il Sindacato del Paleolitico non ha sense of humour".
L’erba del vicino non è necessariamente più verde. E’ la banale constatazione che ho provato nel leggere un comunicato della CGT Culture, che spara a zero: ma contro chi? contro la insufficiente organizzazione dei musei? contro lo scarso impegno puibblico nella diffusione della cultura? contro una inadeguata politica dei restauri? Nulla di tutto ciò: contro la liberalizzazione dell’uso delle immagini del patrimonio culturale di musei e monumenti di Francia! Avete letto bene. Il maggiore sindacato francese ha scelto come mulino a vento contro il quale scagliarsi la possibilità che i cittadini francesi e del mondo intero possano godere, e diononvoglia! usare le immagini del patrimonio pubblico. Che è come dire impedire l’uso pubblico di qualcosa che è pubblico per il fatto che è appunto pubblico! Questa fremente idiozia si nasconde dietro una foglia di fico, e cioè la paventata possibilità che la messa in rete di milioni di immagini che descrivono la storia culturale non solo europea passi attraverso Google e che quindi possa essere fagocitata da un colosso della comunicazione digitale. Ma accordi con Google per la digitalizzazione del patrimonio sono ormai all’ordine del giorno e prevedono paletti ben definiti circa la diffusione delle immagini. La prospettiva che una gestione open data delle immagini dei musei e dei monumenti pubblici francesi avvenga attraverso l’odiata multinazionale del Male viene invece avversata da questi sindacalisti del paleolitico come un “saccheggio del nostro patrimonio”, perché questo significherebbe aprire non solo – cito – “l’accesso e l’uso gratuito ai fondi fotografici pubblici, ma soprattutto aprire l’uso gratuito per ogni uso commerciale su tutto il pianeta”. Orrore orrore, al rogo! Che milioni di persone usino quotidianamente e gratuitamente le immagini di google.earth o scarichino da google.books libri altrimenti difficili da reperire evidentemente sfugge ai vigili sindacalisti. Insomma, Oltralpe si starebbe lavorando ad una “svendita” del patrimonio culturale: una parolina sfuggita agli estensori del comunicato, che ci fa sospettare che per loro si tratti forse solo di una questione di prezzo: chi sarebbe quindi il mercificatore? Quello che sfugge davvero invece è il fatto che la liberalizzazione planetaria dell’uso delle immagini del patrimonio culturale toglierebbe loro proprio l’etichetta del prezzo. Gratuiti per tutti significa che nessuno può trarre beneficio dalla rivendita di quel diritto d’immagine, o meglio che potranno trarne beneficio davvero tutti e non solo i grandi potentati. Se i beni sono pubblici, infatti, pubbliche saranno a maggior ragione le loro rappresentazioni. Senza più un limite al loro uso, nessuno potrà appropriarsi di quella immagine a suo unico vantaggio. In fondo, stiamo semplicemente parlando in termini concreti di democrazia della cultura. Il sindacato del paleolitico ovviamente non può avere il senso dell’humour. E’ convinto che gli open data vadano avversati perché privatizzano ciò che è prodotto con denaro pubblico. Insomma, come puoi tu cittadino, singolo o associato, tu artigiano, professionista, imprenditore, impiegato, pensionato, abitante di questo pianeta far uso di una cosa pubblica? con che diritto la privatizzi? se andiamo di questo passo accadrà che i privati cittadini potranno fare libero uso, anche per le loro attività economiche, delle strade aperte ed asfaltate con i soldi di tutti! ma dove andremo a finire?! Lasciamo stare. Dietro a queste lepidezze c’è il posto di lavoro dei sessanta fotografi dell’Agenzia fotografica della francese Réunion des Musées Nationaux che sarebbero messi a rischio dalla liberalizzazione (come se non fossero ben altre le mille funzioni che un servizio fotografico svolge all’interno della proprio istituzione). Insomma, sindacalmente parlando, mettiamo pure in pista 60 fotografi contro 6.000.000.000 di potenziali utenti, e buona fortuna! E noi italiani come stiamo? Be’, per fortuna un po’ meglio dei cugini francesi, anche se la battaglia per una liberalizzazione piena dell’uso delle immagini è ancora tutta da fare. Sì, perché se, grazie ai decreti Franceschini, la liberalizzazione delle immagini del patrimonio per uso scientifico e di studio è ormai un fatto acquisito, i cavilli del vigente Codice Urbani rendono più ardua la liberalizzazione vera, cioè quella per usi anche commerciali. Un divieto tuttora vigente rende oggi onerosissime e spesso improponibili pur lodevoli iniziative editoriali, a meno che – questo è il lato grottesco della vicenda – la tiratura non sia inferiore alle 2000 copie e il prezzo di copertina non superi i 77 euro! Non è un caso che per la liberalizzazione piena delle immagini del patrimonio culturale pubblico spingano sempre più convintamente il mondo degli studiosi e le case editrici specializzate in pubblicazioni di arte e cultura. E infatti sono ormai valanga i musei, le gallerie e le istituzioni culturali che mettono in rete liberamente in varie parti del mondo, e ad alta definizione, le immagini delle proprie collezioni (e lode vada per questo al nostro Museo Egizio di Torino), anche perché questa generosità è ripagata da un consistente ritorno di immagine. Non è un gioco di parole: è provato infatti che nella maggior parte dei casi i costi di gestione per l’esazione dei proventi da diritti di riproduzione siano ben maggiori degli introiti che se ne ricavano, come peraltro ha dimostrato una accurata relazione pubblicata dall’INHA di Parigi. Se dunque sul piano economico è certificato che la sindrome proprietaria costa e non produce né ricchezza né diffusione di cultura, si pensi invece quante risorse pubbliche verrebbero generate da un uso libero e creativo delle immagini del patrimonio attraverso la fiscalità. Senza contare che così facendo agiremmo né più né meno che in nome di quel tanto stiracchiato articolo 9 della Costituzione che al comma 1 indica la diffusione della cultura come funzione della Repubblica, e invita quindi a considerare la gestione del patrimonio culturale alla stregua di un grande, meraviglioso servizio pubblico. Quel che un sindacato francese, che dice di battersi “per la giustizia sociale, la pace e l’uguaglianza” e qualche intellettuale o giurista di casa nostra nostalgico del Novecento, si ostinano ancora a negare. D’altra parte sono i grandi antropologi del Novecento che ci hanno insegnato che per alcune popolazioni del pianeta la macchina fotografica incuteva paura perché “rubava l’anima”. Caro Ministro Franceschini, a lei guarda l’Italia che crede nella cultura e nella innovazione e non crede alla contrapposizione tra cultura e economia. Pur nelle difficoltà quotidiane della vicenda politica italiana, il processo di liberalizzazione delle immagini cominciato qualche anno fa con il Decreto Musei, va ora portato a buon fine con la espunzione del limite del lucro dagli artt. 107 e 108 del Codice dei beni culturali. Se non ora, quando?
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