Verona. Sette secoli d’arte. I tesori veronesi di Palazzo Maffei Marzio Breda Corriere della Sera 14/2/2020
Giovanni Macchia, il nostro maggior francesista del Novecento, quando in gioventù fu tentato dalla musica rimase scandalizzato al pensiero che Ludwig di Baviera si chiudesse da solo in un teatro ad ascoltare Wagner. «Inconcepibile», diceva, non condividere con altri la bellezza dell’arte, perché l’arte, di qualsiasi forma e tempo, nasce per «dare spettacolo» ed essere goduta da chiunque, senza esclusioni. È lo stesso sentimento che ha indotto l’imprenditore, e cavaliere del lavoro, Luigi Carlon a compiere una scelta non comune, in Italia: rendere disponibile a tutti la sua importante collezione d’arte, collocandola in uno dei più sontuosi edifici di Verona. Cioè quel secentesco Palazzo Maffei, da lui acquistato e restaurato per farne una casa-museo, che chiude come una scenografica quinta il lato nord di piazza delle Erbe, cuore della città romana e poi medievale e rinascimentale.
Quella stratificazione storico-architettonica si rispecchia anche nella raccolta messa insieme in cinquant’anni da Carlon. Il quale ha distribuito nei diversi percorsi tematici dei saloni 200 dipinti e 150 tra sculture, disegni, vetri, avori, argenti, bronzetti, ceramiche e mobili (dall’alta epoca al Bauhaus). Sette secoli d’arte con opere che, scomponendo le cronologie, risultano «in dialogo» fra loro secondo un criterio che incrocia continuità e scatti in avanti, ibridazioni e rotture del linguaggio artistico.
Tutto si tiene, nella sintesi che ne viene fuori e che è frutto di un’intuizione museografica di Gabriella Belli. Così, succede ad esempio che al trittico del Maestro di San Zeno e ai fondi oro del Trecento ispirati alla crocifissione si accompagni con inaspettata coerenza un drammatico taglio rosso di Fontana. E che tra le tavole quattro-cinquecentesche a soggetto mariano di Liberale da Verona e fra Girolamo Bonsignori s’interponga una potente e casta Maternità di Arturo Martini.
E se il collezionista veronese ha ritenuto quasi un dovere riunire opere mai viste dell’identità artistica della propria città (dalle testimonianze dell’età scaligera alla spettacolare veduta sull’Adige di Gaspar van Wittel del 1695), quando ha dato retta alla propria passione si è concentrato sulla modernità. Rincorrendo in mezzo mondo capolavori dei futuristi Boccioni, Balla e Severini, dei metafisici e simbolisti de Chirico, Max Ernst, Mirò, Savinio e uno strepitoso Magritte, mentre l’esplorazione delle avanguardie non gli ha fatto trascurare Braque, Picasso e Duchamp, sfociando nell’informale di Vedova, Afro, Tancredi, Burri e Twombly e chiudendo la ricerca con la raffinatissima dimensione concettuale delle cancellature di Emilio Isgrò e con la misteriosa e poetica nube sospesa sotto teca vitrea di Leandro Erlich. Proprio quest’ultima immagine ci aiuta a capire che il capitano d’industria Carlon, per imbarcarsi in un’impresa come questa casa-museo (in apertura domani), deve avere oltre al pragmatismo anche il candore che Ennio Flaiano assegnava ai sognatori. I quali, diceva, «stanno al mondo con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole».
|