Adriano Olivetti. La capacità di legare insieme territorio e proiezione globale Giuseppe Berta Corriere della Sera - Torino 26/2/2020
Il grande imprenditore additato ancora oggi come esempio da seguire
È con la dedica ad Adriano Olivetti «maestro dell’industria mondiale» che si apre il penultimo, controverso romanzo di Paolo Volponi «Le mosche del capitale» (1989), un racconto acre sulle dinamiche del potere ai vertici del sistema imprenditoriale italiano. Volponi, un olivettiano che peraltro non aveva mai aderito al Movimento Comunità fondato da Adriano, indicava nella sua figura quella del portatore di un’alternativa che il capitalismo aveva scartato e rimosso già all’indomani della sua scomparsa improvvisa il 27 febbraio 1960. Trent’anni dopo, in fondo, non è cambiato molto perché ancora oggi non sono pochi coloro che ravvisano nell’artefice del successo internazionale della Olivetti il profilo di un irregolare, destinato a non essere ascoltato dall’establishment economico e politico.
Eppure Adriano Olivetti ai suoi tempi non fu affatto un profeta disarmato. Fu un imprenditore allora glorificato fra i grandi protagonisti del «miracolo economico» che guadagnò risonanza e consenso nel mondo all’Italia industriale e ai suoi prodotti. Come si potrebbe fare la storia del boom senza ricordare manufatti dalla eccezionale fortuna di mercato quali la calcolatrice meccanica Divisumma e la Lettera 22; la macchina per scrivere portatile lanciata col primo slogan glocal che si ricordi: «Questa macchina viene da Agliè»? In fondo, una delle più originali e resistenti innovazioni di quella Olivetti, della Olivetti di Adriano, era stata di coniugare l’adesione al territorio con la proiezione internazionale, Ivrea con la dimensione cosmopolita che gli Olivetti padre e figlio (Camillo prima ancora di Adriano) avevano praticato frequentando gli Stati Uniti fin da giovani. Anzi, additando negli Stati Uniti un modello industriale che bisognava interiorizzare.
Il successo imprenditoriale di Adriano Olivetti fu lungamente costruito. Non negli studi tecnici che aveva frequentato un po’ di malavoglia, spintovi da Camillo, fino alla laurea in ingegneria conseguita al Politecnico di Torino senza grande convinzione. Ma soprattutto nell’apprendimento sperimentale degli anni Venti e Trenta, compiuto attraverso i viaggi di studio in America e in Europa, a osservare organizzazioni più grandi e complesse rispetto a quelle che esistevano in Italia. Così il giovane Adriano aveva imparato che proprio l’analisi dell’organizzazione era la chiave di volta della crescita dell’impresa. Solo che col tempo, già prima della Seconda guerra mondiale, aveva unito agli studi sui modelli che coniugavano la tecnologia con l’organizzazione e la conoscenza, anch’essa sperimentale, della pianificazione urbanistica, perché la produzione industriale andava incastonata il più armoniosamente possibile nel territorio. Fino a indurre Olivetti, nella sua maturità, a pensare che fosse possibile ricostruire la struttura istituzionale attorno alla cellula di base della comunità, allo scopo di salvaguardare i caratteri portanti del territorio.
Dalla ricerca del legame organico coll’ambiente e dalla tensione utopica verso una ricostruzione complessiva della società, oltre che dalla attenzione intensa per quanto di nuovo si muovesse sulla scena culturale, deriva la fascinazione che il modello olivettiano ha esercitato sull’opinione colta della sua epoca e che i sei decenni trascorsi dalla sua scomparsa non hanno sopito. Olivetti era un uomo della sua epoca con lo sguardo rivolto al futuro, la dimensione in cui era forse più a suo agio. Quando i suoi prodotti meccanici si vendevano benissimo e garantivano elevati livelli di profitto, già presagiva il ruolo che un giorno avrebbe avuto l’informatica, un parola nemmeno esisteva.
E poi c’era il gusto per il bello trasferito agli oggetti di uso quotidiano e agli ambienti di vita e di lavoro. La bellezza era incorporata in macchine piccole, che la produzione di massa rendeva alla portata di tutti. Così come gradevole doveva essere lo spazio delle fabbriche, dei servizi sociali aziendali, degli asili e delle colonie per i bambini. Chi ha avuto modo di vedere la casa di Adriano Olivetti sulla collina di Monte Navale, a Ivrea, si è potuto rendere conto di quanto diversa sia dalle case dei ricchi. La sua piacevolezza è quella di una quotidianità interpretata in chiave razionalistica, come razionalistica è l’impronta che si riscontra negli edifici da lui voluti.
La forza perdurante della traccia olivettiana va colta probabilmente nella varietà degli interventi ispirati da Adriano più che nella chiusa coerenza di un modello oggi ovviamente irriproducibile, tanto grande è la distanza che ci separa dal suo mondo. È chiaro che non c’è una lezione olivettiana da tradurre nella realtà attuale e che è giusto ricondurre la personalità stessa di Adriano dal mito alla storia. E tuttavia è altrettanto giusto non dimenticare un’esperienza che, oltre a non aver perso il proprio alone culturale, continua a parlare alla sensibilità di chi la vuol conoscere, proponendo una visione straordinariamente articolata dell’impresa, che per contrasto rivela la povertà di tanti stereotipi dominanti. |