A Gavi l’imprenditore Rossi Cairo ha creato la Fondazione La Raia. «Ho iniziato vendendo l’arte porta a porta» Maurizio Francesconi - Alessandro Martini Corriere della Sera - Torino 8/3/2020
A Gavi l’imprenditore Rossi Cairo ha creato la Fondazione La Raia: «Già mio nonno era un collezionista. Aveva molto fiuto ma poca fortuna»
Pochi tornanti sopra la piana di Serravalle Scrivia con l’outlet più grande d’Italia, si apre una campagna pressoché intatta. Siamo nelle terre del Gavi ed è proprio questo paesaggio di viti e colline ad aver attirato Giorgio Rossi Cairo, imprenditore milanese (fondatore del gruppo Value Partners), dal 2002 proprietario dell’azienda agricola biodinamica La Raia. L’attenzione al rapporto con la natura e con i suoi ritmi è talmente centrale nella visione di Rossi Cairo da aver dato vita a una riflessione sul valore del paesaggio inteso nelle sue varie componenti: naturali, culturali, urbanistiche. La Fondazione La Raia è impegnata sul fronte dell’arte contemporanea e, in particolare, del rapporto tra uomo e natura. In sette anni sono state commissionate otto opere ad artisti come Remo Salvadori, Koo Jeong-A, Francesco Jodice, Adrien Missika, Cosimo Veneziano e Michael Beutler, autore anche del prossimo intervento che sarà inaugurato a maggio. Sono il frutto dell’impegno di Rossi Cairo con la moglie gallerista Irene Crocco e della direzione artistica di Ilaria Bonacossa. «Ogni progetto di un nuovo artista richiede conoscenza reciproca», spiega Rossi Cairo, «interesse profondo per il paesaggio e la natura, comprensione vera del luogo in cui l’opera deve sorgere».
Come si è scoperto collezionista?
«Sono sempre stato appassionato d’arte. Mia madre era una pittrice dilettante e mio nonno collezionava con fiuto ma poca fortuna. Perse al gioco quasi tutte le sue opere tranne pochi pezzi, tra cui una natura morta fiamminga che è arrivata a me».
Un personaggio a suo modo simpatico.
«Di certo, ma non so se mia nonna avrebbe risposto nello stesso modo…».
Come ha acquistato la sua prima opera?
«All’inizio degli anni 70 ero amico di Filippo Avalle, un giovane pittore rientrato dall’Olanda. In un sottotetto in via Lanzone, a Milano, organizzammo una sua mostra, che fu anche recensita dal Corriere. Lì acquistai il mio primo quadro».
Ha cominciato presto a dedicarsi all’arte?
«Durante l’università con un amico vendevamo litografie porta a porta a medici e avvocati, due categorie che avevamo selezionato pensando che avessero pareti da arredare e dovessero dimostrare di essere sensibili al tocco artistico. La sorella del mio amico era una restauratrice. Nel suo laboratorio vidi una veduta inglese, che comperai con un prestito di mio padre. Più tardi arrivarono due paesaggi ad acquarello coreani di fine 700, acquistati durante un viaggio di lavoro in Oriente, ma anche diversi quadri dell’amico Stefano Levi, che ha anche ritratto la mia famiglia. Tutto cominciò così».
È cambiata la sua collezione nel corso del tempo?
«L’incontro con Irene è stato determinante, perché mi ha offerto una finestra di conoscenza sull’arte contemporanea e qualche strumento critico in più. La mia collezione si è arricchita di opere di artisti come Takashi Homma, Ramak Fazel, Wang Qiuang e, più di recente, di alcune fotografie di Guido Guidi, che ho la fortuna di frequentare. Del suo lavoro continua ad affascinarmi la straordinaria capacità di inserire il fattore tempo nella fotografia, lavorando con la luce e le ombre. Ho molte sue opere tra cui la serie della tomba Brion progettata da Carlo Scarpa. Non mi capacito di come un maestro come lui, presente nei maggiori musei internazionali, sia più conosciuto all’estero che in Italia».
Quali artisti vorrebbe aggiungere alla sua collezione?
«La risposta più onesta? Tutti quelli che non posso permettermi. Amo molto i futuristi, le viste aeree e gli aeroplani, forse perché nasco come ingegnere aeronautico. Mi piacerebbe avere un Depero o, tra i contemporanei, Alex Katz».
Venderebbe mai un’opera che possiede?
«Non ci ho mai pensato. Non mi interessa il valore economico delle opere comprate in passato, né com’è cambiato nel tempo. Non è quello che mi spinge a comprare».
Come si colloca La Raia nel suo percorso di amante dell’arte?
«La Fondazione è nata nel 2013, creata da Irene e me con l’intento di restituire in parte quello che questo territorio magico ci aveva dato e continua a darci. Credo molto nella restituzione al territorio, in un’ottica di bene collettivo. È per questo che abbiamo invitato nel tempo artisti, filosofi e paesaggisti a gettare il loro sguardo critico su queste colline e a trarne ispirazione. Tutti gli incontri e le opere realizzati nella tenuta sono aperti al pubblico, alle scuole, perché l’arte nasce non per essere nascosta ma condivisa».
A quale opera è più legato?
«Io e Irene le amiamo tutte, le abbiamo scelte. O forse, come sempre qui a La Raia, sono le opere e gli artisti ad aver scelto noi».
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