Pieve a Celle. Salviamo questa casa d’artista Mario Ruffini Corriere Fiorentino 15/4/2020
Giuseppe Gavazzi, sensibilissimo maestro del restauro delle pitture murali, miracoloso scultore del «non finito» nella scultura lignea, o scultore di terracotta col suo popolo dallo sguardo ingenuamente remoto, addensa ogni atto creativo nel suo straordinario laboratorio medievale, senza tempo, dipinto e sovraccarico. «Era un giorno triste, più malinconico di altri»: così Gavazzi ricorda il momento in cui nacque la sua prima scultura. Colpiscono in lui il sentimento di solitudine e lo spiritus creator.
«La solitudine non mi è mai nemica»: un assunto quasi profetico in questo drammatico periodo nel quale tutti noi siamo obbligati alla solitudine. Ma si può essere soli in quel paradiso nascosto fra le colline del pistoiese di Pieve a Celle, la sua casa-laboratorio che è opera d’arte essa stessa? Gavazzi è creatore per esigenze di natura, e non d’arte. La sua è una disciplina che ha dentro il mistero della cultura arcaica e il fascino seducente della modernità, che ferma in concreta materia scultorea figure, gesti e pensieri, con temi quali la maternità, i bambini, il cavallo.
Alla metà degli anni ’90 risalgono i primi affreschi, di cui la facciata del suo laboratorio – Le quattro stagioni – costituisce un esempio che ormai segna iconograficamente il territorio di quella valle pistoiese. Il grande affresco ci obbliga ad accostarci al laboratorio di Gavazzi per vivere un’esperienza carica di emozioni, poiché il lavoro nel suo farsi era lì colto nell’intimità e nella solitudine del pensiero creativo. Quella bottega d’artista era un gesto intimo, un viaggio metafisico in un luogo magico dove gli stessi strumenti di lavoro vengono ideati e forgiati all’occorrenza. All’interno vecchie scaffalature accolgono miriadi di vasetti con pigmenti ordinati per colore e tipologia, e arnesi da lavoro recuperati dalla tradizione artigianale. Di ogni strumento Gavazzi spiega l’uso originario: è un viaggio nella storia dell’arte italiana, attraverso gli occhi di chi, per una vita, ha restaurato tra gli altri i più grandi capolavori di Giotto, Ambrogio Lorenzetti, Paolo Uccello, Piero della Francesca, Ghirlandaio, Andrea del Sarto, trasferendo la conoscenza di restauratore nello spirito creativo d’artista. Lavorava a mano, da solo, con martello e scalpello. Colpiscono le dimensioni colossali delle sue opere e l’estrema forza che il maestro metteva nell’affrontare il lavoro. La visita allo studio prosegue con l’illustrazione degli arnesi e degli strumenti di lavoro, mentre i pigmenti ben ordinati mostrano le varie gradazioni dei colori: il macinino che serve per trarre la polvere di minerale, il mortaio di lega in bronzo per pestare e impastare… In Gavazzi e nella sua bottega si riuniscono il mestiere degli artigiani medievali: in lui la scultura riflette la coscienza della storia.
Vivissima è in Gavazzi l’idea del tempo. Il tempo delle stagioni, della vita che scorre eppure è ferma, quello naturale del ciclo lunare o dell’artigiano medievale. Egli ricorda che per realizzare una scultura in legno bisogna tagliare l’albero in inverno (e quando la luna è calante), momento in cui la vita rallenta, come quella odierna nella nostra forzata sospensione dalla vita: aleggiano qui una saggezza e una conoscenza oggi perdute. Il suo luogo incantato fra le montagne pistoiesi permette di osservare il manifestarsi del tempo, che nel laboratorio gavazziano si incontra, si percepisce, si tocca, osservando la facciata che accoglie il cauto e abbagliato visitatore e che raffigura, nelle simboliche concretizzazioni di quattro volti di donna, Le quattro stagioni . Un’opera che evoca l’irrevocabile destino umano delle cose che passano, e tornano, sempre diverse e uguali.
La casa laboratorio vive ancora oggi come accadeva nei tempi antichi: piena di attrezzi per le diverse esigenze dello scolpire una pietra o un legno, fondere un bronzo, plasmare la terracotta o costruire un cavallo in stuccoforte (che è un miscuglio di resina, vinavil, carbonato di calcio, pomice, sabbia, tessuto di lino e canapa). Si staglia a bella vista un barattolo col blu lapislazzuli, pietre arrivate da un mercante del Bangladesh: impasto di cera d’api, ragia di pino, pece greca, olio di lino e acqua ragia, pietra macinata… Di ogni colore, Gavazzi potrebbe raccontare una storia: ma quella storia è ora lì, nella sua bottega, nei vasi d’ogni genere e misura contenenti i pigmenti, in parte fatti a mano, partendo dalla materia prima. L’arte è una catena che si sviluppa da artista ad artista, e Gavazzi ha assorbito l’insegnamento da molti degli anelli che lo precedono: i grandi maestri da lui restaurati sono stati la sua vera scuola. L’amore che metteva per il restauro e per la scultura risulta evidente anche dal fatto che Gavazzi costruiva da solo molti degli arnesi, inventandosi speciali scalpelli, sgorbie e altro perché non in commercio. Indimenticabili le visite della domenica mattina al suo laboratorio, col camino acceso, fra opere d’arte, scalpelli, bruschetta e prosciutto. Tante domeniche solitarie passare con Gavazzi, altre con Max Seidel (il suo massimo esegeta), o con Mina Gregori, James Bradburne o Claudio Di Benedetto. Lì il tempo si è fermato, non diversamente da quello che oggi viviamo: è necessario farne tesoro e non disperderlo. |