La rivoluzione Boeri: fuoritutto quello che era dentro Edoardo Semmola Corriere Fiorentino 25/4/2020
«Giocare sui grandi spazi. Ampliare le case è difficile, i luoghi comuni no»
La cattiva notizia è che l’architetto Stefano Boeri, guardando alla ripartenza del dopo-virus, scorge due scenari. Entrambi «da guardare con molta cautela». I pensatoi di architettura si interrogano sulle strategie: come ripensare case, piazze, città. La presidente della Scuola di Architettura dell’Università di Firenze, Susanna Caccia Gherardini, punterebbe sul potenziamento degli spazi aperti. Marco Casamonti e Massimiliano Fuksas rispondono con le «case anti-virus».
E lei Boeri, quale visione ha del futuro, quali sono questi due scenari?
«Il primo è il potenziamento del digitale, che può essere spinto fino a forme di controllo e sorveglianza estremi: droni, riconoscimento facciale, geolocalizzazione generale. In Cina li ho visti applicare, sono al limite della totale privazione dei diritti elementari».
È comprensibile che la spaventi. L’altro?
«Lavorare sull’aspetto “fisico”, è la strada delle barriere, dei muri, dei plexiglass per separare le persone, dividere lo spazio pubblico. In entrambi i casi ci vuol poco a finire in un regime totalitario o in incubo distopico fatto di piazze murate».
Il tema è la fisionomia delle città dopo la pandemia. Cosa fare allora?
«Le città hanno due possibilità: lavorare sul tempo, sui ritmi di vita, de-sincronizzandoli, aprendo scuole e uffici a orari diversi, non più contemporaneamente, così da evitare intere fasi della giornata dove le città si ingolfano e le persone si ammassano. Spandendo la vita urbana non dico su 24 ore ma almeno su 16. Cambiare radicalmente il nostro modo di vivere il tempo».
Oppure?
«Oppure lavorare sugli spazi aperti. A Firenze avete bellissimi e grandi lungarni, un parco vicino al centro come le Cascine: iniziate a portare “fuori” ciò che sta “dentro”. A fornire ogni negozio di un dehors. Magari con marciapiedi e strade più strette, tanto dovremo organizzarci con meno traffico e parcheggi».
Ma le piazze di Firenze sono già piene di dehors, il Comune ha concesso licenze a valanga e talvolta, come per piazza della Repubblica, ci si è pure pentiti.
«Mi riferisco principalmente a spazi di condivisione, come il progetto illuminante che Richard Rogers pensò 35 anni fa per le sponde dell’Arno. Dovremo trovare chi si prende cura degli spazio aperti e i piani terra, anche commerciali, potranno dare idee e risorse. Avete il modello dell’Estate Fiorentina a cui rifarvi come volano culturale di piazze, strade e cortili».
A Firenze abbiamo già i marciapiedi che più stretti non si può.
«È un cambiamento radicale e bisogna avere coraggio. Ripensare i mezzi di trasporto pubblico con una maggiore distanziazione interna e intensificando le corse. E lavorare per aumentare sharing ed elettrico. In 4 anni al massimo dovremmo chiudere per sempre con la mobilità basata sui combustibili fossili».
Lei ci chiede di uscire di casa e vivere il più possibile sotto il cielo?
«L’aria, il suo circolare nello spazio, sarà fondamentale dopo questa esperienza di chiusura. Anche per combattere il virus. Penso a concerti e cinema all’aperto non solo d’estate, imparando a riscaldare gli ambenti d’inverno. Ci stiamo già lavorando. Con attenzione ma si può fare».
Chissà il consumo di energia…
«Stiamo già progettando quartieri energeticamente autosufficienti: eolico, geotermia, idrogeno. Ma serve un’operazione di decentramento».
Difficile proporre un’idea così per Firenze.
«Firenze ha già una sua natura policentrica eccezionale. Non dovete pensare solo al quadrilatero del turismo: ridistribuite i flussi in modi alternativi, sia quelli dei turisti che dei cittadini».
Sono anni che ci si prova, o almeno se ne discute. Pare sia una sfida impossibile.
«Ma non c’è più alternativa. Dario Nardella e Tommaso Sacchi si stanno prodigando al massimo su questo tema, ho molta fiducia in loro. E a causa della pandemia, potrebbe essere la volta buona. Avremo meno turisti per un po’, possiamo lavorare per riportare i fiorentini in centro».
Lei immagina una Firenze capace di vivere «fuori» con il distanziamento sociale?
«Avete un problema di densità degli spazi ma ciò che ci viene chiesto ora è attivare un processo molto radicale: questa emergenza ci dà anche l’occasione di mettere a posto centinaia di piccoli centri storici attorno alle città, dal territorio verso Pistoia ai borghi bellissimi dell’Appennino».
Ma non parlavamo di ripopolare il centro?
«Il centro è già abbandonato. Punto. Lo avete lasciato in mano agli Aribnb. Quindi, se da una parte occorre lavorare per ripopolarlo, dall’altra è fondamentale pensare anche a rendere vivibili i centri fuori dal centro. Il processo di fuoriuscita dalle città è inevitabile, va orientato».
Qual è il modo giusto?
«Non ripetere gli errori degli anni 80 con la cementificazione tra Firenze e Pistoia e sulla costa. La città è piccola e circondata da ville e borghi storici da sfruttare. E poi Firenze ha già una buona sintassi urbana: corsi e lungarni che sembrano piazze, una gamma di piccoli, medi e grandi slarghi. Bellissimi. Può diventare la sua qualità».
E sulle case al tempo del coronavirus, cosa pensa?
«Che è sbagliato ragionare di soglie minime di metri quadrati. Gli spazi sono quelli che sono, inadatti al distanziamento sociale. Meglio pensare ad arredi flessibili, a case capaci di cambiare nel corso della giornata: camere che sono da letto di notte e studi di giorno, letti che diventano tavoli. E ridurre la congestione. Ampliare le case sarebbe difficile in tempi brevi. Ampliare gli spazi comuni invece sì. Con presidi sanitari diagnostici diffusi a livello sia di condominio che di quartiere».
Anche i quartieri cambieranno?
«A Tirana ne vedrete uno nuovo tra due anni progettato da noi in chiave post-Covid: con spazi aperti ancora più ampi, abitazioni tutte con un piano di coworking, scale e ascensori più grandi, ingresso di merci solo dal tetto, tramite droni, per togliere le auto dalla strada. Il tetto diventerà la quinta facciata delle case del futuro».
È fantascienza.
«No, futuro prossimo».
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