In margine a un intervento di Vincenzo Trione sul distanziamento nei musei
Evito, ho sempre evitato, interventi a caldo, sull’onda di reazione epidermiche. A maggior ragione li ho sempre evitati nel sito di cui sono responsabile da molti anni (diciotto), un sito certo ormai vecchio e che arranca sulla base di un risicatissimo volontariato: antiquato come aspetto, antiquato (purtroppo) come intento (quello di fornire materiali, per una lettura autonoma e critica degli eventi). Leggendo tuttavia l’articolo di Vincenzo Trione sul “Corriere della Sera” di ieri 29 aprile (Riscoprire i musei (e l'arte) nell'epoca del distanziamento), non posso esimermi, proprio non posso, da intervenire. Con un certo sdegno. A me non interessa visitare un museo come luogo incantato, addirittura spettrale. Così come non mi interessa vivere una città come un luogo desolato, in cui sento il rumore dei miei passi e in cui posso esercitare indisturbata la mia capacità di osservazione e ammirazione, finalmente libera dalla presenza rumorosa e talora urtante della gente che a suo modo, secondo gli strumenti culturali che possiede, ne fruisce. Non mi interessa perché non credo che la mia fruizione individuale, il mio piacere (singolare e non collettivo, pacato e non compulsivo) valga di più rispetto a un accostamento, per quanto scomposto e poco consapevole, a quelle testimonianze che tramandano non valori di semplice (difficilmente definibile e aleatoria) “bellezza”, ma ben più complessi fenomeni, esperienze e comportamenti sociali. E questo non certo nella illusoria supposizione che uno valga uno, ma con la convinzione che il patrimonio culturale è patrimonio di tutta l’umanità e che, semmai, è compito di coloro che hanno più strumenti per decifrarne i significati quello di comunicarli e renderli visibili in maniera più efficace. Soprattutto di testimoniare, nelle forme che a ciascuno sono più consone (dalla ricerca alla divulgazione), che questi significati sono sempre frutto di esercizio critico e di umana interpretazione. E che è in contrasto con i valori universali che, nel bene e nel male, ci tramanda il nostro passato indulgere in un individualistico e aristocratico arroccamento. Mi tocca aprioristicamente preferire una centrale elettrica, in cui non sono mai stata, ma il cui funzionamento mi suscita un’impressione di positiva energia, a un più nebuloso luogo incantato, pericolosamente insondabile. Donata Levi |