Napoli. Un piatto «pubblicitario» del Seicento affiora durante i lavori della metropolitana Guido Donatone Corriere del Mezzogiorno - Campania 20/5/2020
Grazie agli imponenti lavori della metropolitana sono stati recuperati i frammenti ricomposti di un piatto di stile compendiario, che si avvaleva di una percentuale di smalto più alta, rispetto al bianco opacizzante tipico della manifattura popolare, che esalta i valori cromatici più intensi.
Nel Ritratto delle grandezze, delizie e meraviglie della nobilissima Città di Napoli del 1588 , una vivace descrizione in versi della città, delle usanze popolari e delle tradizioni locali, Giovan Battista Del Tufo indica per la prima volta la Taverna del Cerriglio, poi decantata da poeti e scrittori partenopei. Seguono nel secolo successivo Giovambattista Basile e Giulio Cesare Cortese. Quest’ultimo, nel poema eroico Micco Passaro nnammorato , racconta che Micco, eccellente spadaccino, alternava ai duelli gli inviti agli amici ai banchetti presso la Taverna del Cerriglio. Inoltre, da una commedia napoletana del Seicento, sappiamo che un assiduo frequentatore era anche Pulcinella, che, assieme a un compare, Volpone, dice: «Siamo amicissimi vecchi e compagni nello studio dell’Hosteria del Cerriglio di Napoli».
Ma dov’era la famosa Taverna? Il toponimo esiste ancora nell’omonima via del Cerriglio, una traversa di via Guglielmo Sanfelice a poca distanza da Rua Catalana e piazza Municipio. Nell’aureo volume sulle strade di Napoli, Gino Doria opina che il nome della Taverna derivasse dalla presenza di qualche quercia: cerriglio in napoletano. Penso invece sia più probabile che l’etimologia sia riferibile a Chorillo in spagnolo, che a sua volta deriva da Chorilleros: lestofanti. Peraltro in toscano il cierro era il ciuffo sulla fronte dei bravi di manzoniana memoria, e forse anche su quella dei mercenari spagnoli che frequentavano l’osteria, dove non disdegnavano portarsi anche borghesi e aristocratici in incognito.
Dopo la succinta rassegna storica, non credo che sussistano documenti figurativi della famosa Taverna. Famosa anche perché fu proprio sull’uscio della stessa che Michelangelo Merisi da Caravaggio fu aggredito e accoltellato nel 1609. Ma dagli scavi condotti da Daniela Giampaoli, della Soprintendenza archeologica, è ora emerso il Piatto aniconico frammentato di maiolica bianca sbiadita, e quindi di tipologia compendiaria tardocinquecentesca, fino al primo decennio del ‘600, anno in cui fu ferito malamente il grande Caravaggio (1606), dove è dipinta in blu la seguente iscrizione fatta apporre dall’Oste Mastrolonardo: «Bella cosa la poltronaria: la st(ate) al fresco: Il verno all’ostaria. Al Cer(rig)lio alla taverna di Lonardo car.(lin)i 35». La poltroneria è il corollario delle golosità e prelibatezze lodate e assaporate, delle iperboli poetiche prima trascritte, ma essa forse sottende anche ciò che poteva offrire, oltre alla frescura d’estate e il caldo riparo d’inverno, quell’antro pantagruelico (come lo definisce Salvatore Di Giacomo nel suo saggio sulle taverne famose napoletane). E cioè certe stanze superiori in cui si potevano appartare in buona compagnia i clienti dopo aver preso quell’uscio per entrar secretamente, e passando sotto arcate dove si vedevano pendoliare larde, presotta, capecuolle, mpanute e mortatelle. L’oste del Cerriglio, che ebbe l’idea di commissionare i piatti pubblicitari di cui ci è pervenuto questo raro esemplare, tiene a indicare che il lauto pranzo costerà carlini 35. Ed è probabile che fosse il prezzo previsto per più di una persona perché nel secolo precedente il Del Tufo fa dire all’oste: «Giusto, s’io non m’inganno à lo contare / Otto carlini m’avete a pagare».
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