Monumenti, il dramma e la farsa Francesco Clementi Corriere dell'Alto Adige 14/6/2020
Il comunicato di Südtiroler Freiheit, come si dice in questi casi, non era nemmeno quotato dai bookmaker. Puntualmente la polemica sulle statue «razziste» da abbattere, deflagrata a livello internazionale dopo le sommosse negli Usa in reazione alla morte di George Floyd, ha varcato — con buona pace dei controlli al Brennero — i confini dell’Alto Adige: a sfruttare il filone Sven Knoll e i suoi amici, che subito sono tornati a chiedere a gran voce l’abbattimento della statua (o meglio, di quel poco che resta) dell’Alpino di Brunico. E in aggiunta, tanto per gradire, di tutti gli altri «relitti fascisti» come il Monumento alla Vittoria e il Duce a Cavallo (peraltro già abbondantemente storicizzati da targhe, coperture e musei). Altrettanto pronti i «ragazzi» di Casapound, che (facendo il «due per uno» delle polemiche d’attualità) in piazza Magnago hanno coperto con una mascherina i chirurgica il volto di Teodorico, il re germanico ritratto nel momento di sopraffare il ladino Laurino. È ancora il caso di parlare di queste provocazioni reciproche? Verrebbe da dire di sì, se perfino le statue di personaggi come Gandhi e Winston Churchill vengono vandalizzate in giro per il mondo. Come sempre, in questi casi, il dramma sconfina nella farsa. Un conto è che nelle metropoli statunitensi, al culmine di giornate tesissime con scontri e violenze, la rabbia travolga i simboli di un passato segregazionista ancora troppo vicino. Un conto è che qui in Italia fior di intellettuali stiano seriosamente discutendo della rimozione (proposta da I Sentinelli) del monumento che ricorda uno dei più importanti giornalisti italiani, Indro Montanelli, nei giardini di via Palestro a Milano. Beato il Paese che non ha bisogno di eroi, certo, e nemmeno di monumenti. Niente è per sempre, tutto passa: le statue prima o poi crolleranno, sotto il peso di mutate sensibilità o degli agenti atmosferici. Eppure il furore talebano degli ultimi giorni lascia l’amaro in bocca, e speriamo non contagi troppo le idee di quei ragazzi che anche ieri hanno riempito piazza Walther per dire no al razzismo (quello vero). I monumenti, belli o brutti, sono lì per il valore e l’importanza pubblica delle persone cui vengono dedicati. Non perché tali protagonisti fossero senza macchia. Sacrosanta una riflessione sulle pagine del colonialismo italiano in Africa, a lungo rimosse, ma condannare alla damnatio memoriae Montanelli (chi lo insultava ieri in piazza Walther si ricorda che fu gambizzato dalle Brigate rosse?) per la triste storia della sua «sposa bambina» sarebbe stupido, come cancellare dalle antologie un altro gigante, Pier Palo Pasolini, per i suoi legami con i «ragazzi di vita». O come oscurare i film di Woody Allen, alle prese con le accuse del #metoo. Dalle ombre private a quelle storiche: in Alto Adige, non da oggi, siamo bravissimi a sfruttare gli oggettivi e reciproci torti del passato, usandoli come clava. Più flebile la voce di chi è stato quasi spazzato via dai suoi carnefici: come la comunità ebraica locale, quasi azzerata negli anni bui da una spietata caccia all’uomo (e alla donna, e al bambino). Abbattere — se non nelle immediatezze di un dopoguerra — raramente è una gran trovata per riparare i torti. Meglio provare a ricucire, costruire, ricordare. Non piacciono i monumenti? Bene, lasciamo il marmo nelle cave di Lasa e piantiamo un albero, come nella bella Collina dei Saggi voluta a Firmian dal sindaco Caramaschi per ricordare chi si è battuto per pace e convivenza.
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