Bella Italia, non vendiamola al miglior offerente Cesare Romiti Il Sole 24 ore, 27/10/2002
Appello al Presidente del Consiglio
Signor Presidente,
in qualunque momento della vita, seppure assorbiti dalle attività più impegnative, ci accompagnano sempre i valori più profondi che rappresentano — dalla coscienza civile alla solidarietà sociale — il filo conduttore di ogni crescita personale oltre che dell'evoluzione stessa di un Paese. Fra le poche cose che contano davvero, degne e capaci dì alimentare interessi e passioni, per Lei come per tutti noi, figura senz'altro l'amore per la cultura e per l'arte. Non Le possono quindi sfuggire le gravi preoccupazioni e il disorientamento che i recenti interventi legislativi per la valorizzazione del patrimonio nazionale hanno suscitato in larghi strati dell'opinione pubblica. Mi riferisco in particolare alla legge numero 112 del 15 giugno 2002 e all'articolo 33 della Finanziaria 2001, che hanno innovato — l'una per vie generali in tema di alienabilità dei beni demaniali, l'altro sul terreno più specifico della cessione e gestione di quelli artistici — linee di principio consolidate e costituzionalmente riconosciute. La legge 112 prevede come noto il conferimento, attraverso decreto, delle proprietà del demanio alla neonata Patrimonio Spa, che in qualità di titolare ne può disporre la cessione alla Infrastrutture Spa, società partecipata da soggetti privati. Alla legittima preoccupazione di vedere alienati siti archeologici, monumenti, opere d'arte e tesori ambientali si è sempre risposto che «nessuno pensa ovviamente di vendere il Colosseo». In realtà il provvedimento ha rimosso di fatto la garanzia giuridica, lasciando sul campo soltanto quella politica, per sua natura effimera.
Ogni rassicurazione si scontra inoltre con lo spirito stesso della legge, che crea un pragmatico strumento di capitalizzazione con evidenti e dichiarate finalità economiche. Come Lei ben sa, gli obiettivi di generare risorse finanziarie sono tanto più raggiungibili quanto maggiore è il pregio dei beni apportati. Appare perciò legittimo interrogarsi sul destino di quelli culturali e artistici, certamente a più alto valore aggiunto.
Affermare che la cessione del Colosseo è "impensabile" ha un significato tautologico, fine a se stesso: non vale in assoluto, né per deduzione o conseguenza logica è riferibile ad altre ipotesi di vendita. Non si applica per esempio alle spiagge di Pianosa o Giannutri e quindi ci si deve responsabilmente chiedere cosa accadrà quando queste aree (o il parco di Capodimonte) usciranno dal demanio e quale livello di protezione sarà loro riservato dopo il trasferimento alla nuova Spa. Qualsiasi dichiarazione d'intenti risulta in sostanza insufficiente a definire il raggio d'azione di un dispositivo discrezionalmente così ampio. Né si può sinceramente affermare una volontà per esclusioni o fino a prove contrarie.
L'articolo 33 della Finanziaria 2001 ha da parte sua esteso l'area di attività generate dai beni culturali e artistici che possono essere trasferite in concessione dall'istituzione pubblica ad altri soggetti, di natura privatistica. Rispetto alla legge Ronchey del 1993, riferibile a precisi ambiti operativi e organizzativi, ha infatti introdotto il concetto di «gestione globale del servizio», che consente una delega pressoché illimitata in materia di affidamento dei luoghi d'arte e del patrimonio culturale.
Riconoscendo personalità giuridica a un'altra e diversa figura di gestore, la nuova normativa non ha tracciato tuttavia alcuna separazione fra il ruolo dell'autorità di tutela e quello del concessionario di gestione e ha aperto invece un vuoto indefinito, fonte di problemi — questi sì —. impensabili.
Un esempio di che cosa può succedere è sotto gli occhi di tutti i romani. Riguarda uno dei luoghi meno affascinanti in assoluto, ma resta a mio parere eclatante. Recentemente è stato inaugurato con grande risonanza un caffè-ristorante sul Vittoriano, che ospita alcuni musei, fra cui quello del Risorgimento. Il monumento non ha certo un grande valore architettonico, ma istituzionale e simbolico sicuramente sì. Come Altare della Patria è un luogo solenne e rappresentativo, quasi liturgico; eppure oggi si può tranquillamente bere un aperitivo o banchettare sulla tomba del Milite ignoto, godendo il panorama e all'ombra degli ombrelloni, senza che nessuno abbia sollevato obiezioni.
Ancora una volta, alla ricerca del ritorno economico, il valore della tutela viene contrapposto agli obiettivi di valorizzazione, benché ne sia il primo e indispensabile presupposto. Non si può infatti valorizzare senza conoscere e non si genera cultura — essenziale allo sviluppo dei luoghi d'arte — senza possederla.
Per quanto mi riguarda, questi temi e i rapporti fra pubblico e privato in materia di beni culturali sono vita vissuta. È stato esattamente 20 anni fa che ho cominciato a pensare di fare di Palazzo Grassi a Venezia un centro di arte e di cultura del tutto nuovo; nuovo per concezione, strategia e ambizioni. Doveva diventare una sede istituzionale, anche se frutto di un'iniziativa privata, e tanto importante da poter riflettere il suo prestigio sulla Fiat stessa. Come poi è avvenuto, esprimendo una realtà di livello internazionale, sempre più citata come un caso esemplare.
Spesso però con riferimenti non appropriati. Palazzo Grassi è uno spazio espositivo monumentale e di straordinario valore storico, recuperato e restaurato in stretta collaborazione con la Sovrintendenza alle Belle Arti di Venezia allora diretta dalla signora Rischiarne di perdere le garanzie per la tutela dei patrimoni Asso. Ma non è un museo e quando non ospita grandi mostre ,è vuoto. È probabilmente il maggiore esempio in Italia dell'impegno di un gruppo industriale per sviluppare l'attività culturale; tuttavia si sbaglia a considerarlo come un paradigma del luogo d'arte, a gestione privata, che genera profitti. Anzi, genera ogni anno sostanziosi deficit.
Rivitalizzare in nome del pubblico interesse la catena "conoscenza-tutela-gestione-fruizione" non vuoi dire insomma spezzarla, escogitando nuovi e improbabili assetti, e non significa espropriare i diritti intellettuali e dì proprietà cedendoli ai migliori offerenti. Se si pensa invece di rifarsi a modelli alternativi, conviene valutarne a fondo i principi ispiratori. Il tanto apprezzato sistema anglosassone di gestione privata non è indirizzato come molti credono (assimilandovi la stessa esperienza di Palazzo Grassi) al profitto, perché si basa su una filosofia opposta, ossia quella dell'impegno civile ed etico attraverso le donazioni a fondo perduto, incentivate dai benefici fiscali a favore del donatore. I contributi dei benefattori costituiscono il cosiddetto capital asset di ciascun museo o luogo d'arte, i cui truster ne investono la maggior parte, per ricavare le risorse destinate a nuove acquisizioni e al funzionamento della struttura.
Cosa ancora più importante poi, nessun generai manager o rappresentante dei soci fondatori piuttosto che dei donatori ha il potere (nonostante il loro ruolo determinante) di orientare o gestire la produzione culturale e l'attività di ricerca. Queste mantengono sempre il primato nella guida e nello sviluppo delle istituzioni e restano affidate ai responsabili culturali. È una questione di conoscenze e competenze, il cui tasso di qualità è tanto più essenziale al patrimonio italiano se si considera che è unico al mondo per le sue straordinarie ricchezze, complessità e storia. Con una particolarìtà. Capacità e preparazione dei responsabili istituzionali sono vitali soprattutto perché alimentate da una passione culturale autentica. Se non ne fossero animati, difficilmente sovrintendenti e direttori delle varie strutture italiane sosterrebbero impegni e condizioni operative che non trovano riscontro nei riconoscimenti (anche economici) loro attribuiti. Detto in tutta franchezza, stupisce perfino la loro compostezza di reazioni, soprattutto quando se ne vuole sacrificare le conoscenze, depotenziando quelle competenze che i musei stranieri (presi a modello) invece si contendono, dando la caccia a studiosi sempre più preparati.
L'avvio delle riforme ha confermato in sostanza la necessità di rivalutarne significati e contenuti. Ed è possibile farlo. In tema di alienabilità dei beni si possono chiarire le scelte di fondo accogliendo le proposte di riconoscere i vincoli conservativi, già esistenti, quali parametri discriminanti anche in materia di conferimento. Per quanto riguarda la gestione e cessione di quelli artistici, la mancata emanazione del regolamento attuativo dopo i rilievi sollevati in Consiglio di Stato (sulle norme relative agli ambiti passati ora di competenza alle Regioni) ne giustifica a maggior ragione un'ulteriore revisione.
La strada per dare un più preciso indirizzo alla politica di Governo non è quindi chiusa e questa lettera aperta nasce dalla consapevolezza — da Lei sicuramente condivisa — di quanto sia essenziale salvaguardare principi e valori fondamentali per la nostra società, eliminando ogni eventuale zona d'ombra o di ambiguità.
Spetta ora a Lei esprimerne la volontà.
Cesare Romiti
P.S.: Caro Presidente, ti conosco da molti anni e da sempre ci diamo del "Tu". Il "Lei" di questa lettera aperta è semplicemente per il riguardo dovuto, in un documento pubblico, alla carica che rivesti.
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