Sta a noi far sì che il patrimonio resti una cultura vivente Sébastien Allard, Danièle Cohn 20 gennaio 2021
Il patrimonio culturale è diventato per noi qualcosa che appartiene definitivamente al passato? La lettura del rapporto commissionato dal ministero della Cultura Cinquante ans de pratiques culturelles en France potrebbe farlo pensare. Si oppone una «cultura del patrimonio» a una «cultura digitale» che sarebbe più giovane, più moderna, socialmente più aperta e anche più seducente. Questo approccio lega l’impiego del termine cultura soltanto alla tipologia dei suoi fruitori; è così che la «pratica» del digitale diventa «cultura digitale». Dentro questo slittamento, volenti o nolenti, il digitale, favorito della crisi indotta dal Covid-19, diventa l’unità di misura del nostro rapporto con la cultura e la connotazione passatista della «cultura del patrimonio» subisce un’accelerazione. Questo rapporto ha una sua autentica utilità: creare allarme rispetto al rischio di un indebolimento delle nostre pratiche culturali, nell’ambito del patrimonio. Ma rimane irrisolta la questione dello statuto di questa «cultura del patrimonio», che si tratti di letteratura, di arte, di teatro, di opera… È venuto dunque il momento, senza alcun approccio nostalgico, senza alcuna tentazione declinista, di interrogarsi sul ruolo che noi vogliamo o non vogliamo accordargli. Perché dipende solo da noi se il patrimonio resta cultura viva.
In effetti rassegnarsi a considerare il patrimonio come qualcosa appartenente a un passato irrigidito e immobile significa fraintenderne il concetto stesso e mutilarlo pesantemente. L’emozione suscitata a livello mondiale dall’incendio di Notre-Dame ha mostrato anche di recente l’intensità del carico affettivo e simbolico legato al patrimonio. Nella misura in cui il passato è ciò che noi decidiamo che sia, ciò che noi ne facciamo, ciò in cui noi ci riconosciamo, il patrimonio si ricostruisce in funzione delle questioni che noi poniamo, delle decisioni che prendiamo nel mondo contemporaneo. Il suo ambito si evolve di pari passo con i mutamenti della storia. Si può citare, per esempio, negli anni Settanta segnati dalla deindustrializzazione, la creazione della nozione di patrimonio industriale e sottolineare come quest’ultimo abbia rappresentato una risorsa nello sviluppo di territori in difficoltà, come il bacino minerario del Nord della Francia o la Ruhr in Germania. Inoltre non bisognerebbe confondere patrimonio culturale e cultura «antiquaria». Non si tratta semplicemente di conservare, studiare e gestire degli oggetti, eredità di tempi passati e dunque in parte privati dell’energia della vita, ma piuttosto di far emergere come le opere, in quanto precipitati di esperienza, ci aiutino a costruire il nostro oggi. In questo tempo di pandemia, l’entusiasmo internazionale registrato per La peste di Camus, le letture del Decameron di Boccaccio ne sono testimonianza, tanto quanto l’episodio di Filemone e Bauci nella seconda parte del Faust di Goethe potrebbe essere riletto con riferimento alle nostre preoccupazioni per l’ambiente.
Che le opere abbiano la loro storicità non limita affatto la loro traducibilità in un tempo che non è quello che le ha viste nascere. Invitata nel 2006, dal Museo del Louvre, e avendo scelto il tema «Straniero a casa propria», Toni Morrison ha subito individuato ne La zattera della Medusa di Géricault, un’eco della sua riflessione. Lo slam degli artisti che lei aveva convocato davanti alla tela un anno dopo la crisi delle banlieues ha riattivato la forza trasgressiva di quel quadro, che aveva suscitato scandalo nel 1819. Il visitatore di oggi associa l’opera al dramma dei rifugiati, che naufragano sulle coste del Mediterraneo. In futuro, una diversa attualizzazione sarà possibile. Sarà ricordata e valorizzata proprio perché vi sono più interpretazioni legittime. A una sola condizione: che colgano il senso profondo dell’opera al di là del suo significato storico. È in questo che consiste la ricchezza del «repertorio» nel teatro, nel balletto, nell’opera, e in quelli che definiamo i «classici» in letteratura; il repertorio è aperto e non costituisce un canone, è una riserva creatrice, vivificata dal rinnovarsi delle interpretazioni. Pensiamo al Ring di Wagner presentato da Patrice Chéreau a Bayreuth, a La tempesta di Shakespeare messa in scena da Peter Brook, a Giselle con la coreografia di Mats Ek, o, all’Opera di Parigi, a Les Indes galantes di Rameau proposta da Clément Cogitore con danzatori di krump. Il patrimonio così inteso è una scuola di libertà, essenziale per la costruzione del giudizio, di cui abbiamo bisogno. L’educazione artistica assume allora il suo senso completo, ben al di là di un accumulo di conoscenze. Il problema dell’accessibilità rimane ovviamente un’urgenza, rispetto alla quale lo strumento digitale ha la sua efficacia. Ma non è considerando il patrimonio come un vago ricordo di infanzia o un rifugio interiore che si risolverà il problema. Al contrario. È dunque necessario superare una frammentazione della nozione di cultura che risulta sempre sfavorevole al patrimonio, sia di fronte al digitale sia di fronte a nuove creazioni.
Dal momento che il patrimonio culturale è il vettore della trasmissione, il legame fra epoche diverse, è essenziale alla costituzione delle identità collettive da cui ogni identità individuale è costituita e garantisce una intensificazione dell’esperienza. La sua storicità, animata senza sosta dall’articolazione della memoria e dall’immaginazione, nutre la creatività. Fattore di una continuità aperta e diversificata, indispensabile alla solidità del legame sociale, il patrimonio culturale è dunque un efficace antidoto di cui le società non hanno nessun interesse a privarsi.
La versione originale in francese del presente articolo è apparsa su Le Monde il 15 gennaio 2021 ed è disponibile qui https://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Sta_a_noi_far_si_che_il_patrimonio.html
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