Napoli. Gradini Suor Orsola. L’ateneo adotta una strada. Un percorso che ospiterà un museo a cielo aperto Vittoria Fiorelli Corriere del Mezzogiorno - Campania 27/1/2021
Una «bellissima strada della lunghezza di qualche chilometro, tutta tagliata nella collina dalla quale si ha una stupenda vista». Così una delle numerose guide pubblicate nella seconda metà dell’Ottocento descriveva quello che oggi chiamiamo Corso Vittorio Emanuele.
Una strada la cui bellezza non era legata solamente al panorama che si godeva lungo il percorso, ma che richiamava anche l’orgoglio di trovarsi di fronte a un programma di modernizzazione urbana ben più ambizioso di quanto non si sia poi realizzato. Il progetto, commissionato nel 1852 da Ferdinando II di Borbone, non era ancora il segno di un vero e proprio piano regolatore che soltanto qualche decennio più tardi avrebbe preso forma con la legge per il Risanamento varata nel 1885. Era però la spia della consapevole necessità di dotare la capitale di un asse viario che collegasse Piedigrotta al centro storico e, soprattutto, che integrasse il quartiere collinare con la zona bassa della città. Una carrozzabile ampia, veloce, in linea con l’immagine di una capitale al passo con il suo tempo. Inaugurata in pompa magna il 28 maggio dell’anno successivo, alla presenza della famiglia reale, la strada intitolata alla regina consorte Maria Teresa d’Austria realizzava solo una prima parte dell’intero programma e si fermava davanti alla chiesa di Santa Lucia al Monte, appena superata la cittadella monastica dell’Immacolata Concezione.
Strano destino quello delle città e delle intitolazioni che segnano lo spazio urbano con le tracce della loro storia o con l’urgenza del loro presente. Il moderno asse viario mai completato del tutto, ma terminato nella sua seconda parte prima dell’Unità, cambiò il suo nome in Corso Vittorio Emanuele II dopo l’ingresso di Garibaldi, segnando il passaggio dall’antica alla nuova patria. La cittadella costruita tra Cinque e Seicento, invece, ha pervicacemente mantenuto un nome informale che, dalle origini ai nostri giorni, segna il radicamento di quello spicchio nascosto di giardini e di edifici nel corpo vivo della città e dei suoi abitanti. Costruito in una zona ancora periferica quando i campi e i giardini del monte Sant’Elmo venivano integrati nella città degli spagnoli, l’hortus conclusus di suor Orsola Benincasa ha mantenuto il forte legame con i napoletani che si sentivano difesi dalla fondatrice, nominata protettrice in vita dagli Eletti, e dalla statua miracolosa dell’Immacolata che scendeva in processione dalla chiesa e percorreva le scale che la collegavano alle strade principali della città combattendo calamità ed epidemie come quando, nel 1631, si racconta che fu quella Madonna a fermare la lava del Vesuvio.
Per questo, forse, un piccolo tratto di quelle scale e dell’antica strada di basoli che passano davanti al portone storico della cittadella dell’Immacolata fu salvato dallo sventramento necessario a realizzare la strada moderna e veloce che serviva a Napoli per adeguarsi ai modelli urbanistici di modernizzazione delle capitali europee. La quinta che accompagna le anse panoramiche del Corso, protette da un rescritto di Ferdinando II che impediva la costruzione di edifici sul lato del mare, si è infatti snodata accompagnando e preservando quella traccia preziosa della storia urbana.
Oggi quella protezione è diventata abbandono. Sottratta alla vista e alla percorrenza, l’antica strada di Suor Orsola è precipitata nel degrado e solo la presenza delle scale, in entrambi i tratti che la congiungono al Corso Vittorio Emanuele, hanno impedito un destino ancora deteriore, consegnato all’incuria. In una città che ha scelto di affidarsi all’iniziativa dei cittadini per sottrarre pezzi delle strade e dei giardini alla trascuratezza, la notizia che l’Università Suor Orsola Benincasa abbia ottenuto dal Comune di Napoli la possibilità di garantire la conservazione e la tutela di quel pezzo di storia cittadina che è anche la sua storia è un segnale importante. Di continuità identitaria, certamente, ma anche di un modo moderno di sentire l’impegno attuale e civile delle moderne istituzioni culturali. |