I beni culturali italiani fra pubblico e privato Marco Fratini Riforma, 28/06/2002
La tentazione di vendere la Fontana di Trevi era venuta anche a Totò, in “To-totruffa 62”, ma si trattava di un film. Ora quella famosa scena torna alla men-te discutendo del recente decreto legge 63/2002 del ministro Tremonti relativo a «Interventi urgenti in materia tributaria e di finanza pubblica» firmato dal Presidente della Repubblica il 15 giugno. La legge prevede infatti il trasferimento dei diritti sui beni immobili demaniali dello Stato ad una società per azioni soggetta al Ministero dell’economia, con autorizzazione ad alienare beni pubblici di valore storico, artistico ed ambien-tale, consentendo poi di utilizzarli come garanzia per ottenere fondi necessari alla realizzazione di grandi opere pubbliche. Le affermazioni sull’eventuale vendita a privati del Colosseo o della Fontana di Trevi che hanno avuto risonanza sulla stampa sono ovviamente paradossali, ma sono segni evidenti di uno scorretto uso di termini apparentemente neutri, quali “beni, patrimonio, risorse culturali”, “valorizzazione”. Espressioni di uso corrente, essi traggono origine da formulazioni giuridiche e costituiscono la prova di un’attenzione di tipo prevalentemente economico, compresa fra inte-resse pubblico ed interesse privato. Il concetto di “bene culturale”, testimonianza storica della collettività, ha se-guito nel tempo i mutamenti sociali: dall’idea ristretta di “opera d’arte” ha ac-quisito una dimensione più ampia, dando vita, dagli anni ’70 in poi, alla con-sapevolezza di un’utilità sociale legata alla pubblica fruizione del territorio, nella convinzione che il patrimonio culturale italiano debba essere tutelato come contesto unitario. Ora, il tentativo di uno smembramento (con conseguenti rischi di alienazione e dispersione) non soltanto costituisce un’involuzione rispetto a quel processo di costituzione di un patrimonio pubblico che a partire dal Settecento sembrava aver definito modelli culturali tali da reggere alla spinta delle dinamiche libe-riste (giungendo a definirne l’inalienabilità), ma porta anche con sé il rischio di una clamorosa perdita di beni di altissimo valore – non solo culturale ma anche economico – nel caso si presentasse la necessità di risanare i conti pubblici. Ma, quel che forse è peggio, il provvedimento riconosce la possibilità di met-tere in vendita soltanto «beni di importanza non strategica», senza tuttavia in-corporare norme di classificazione e precise condizioni per la gestione, la-sciando ai governi presenti e futuri la facoltà di definire di volta in volta criteri di scelta e procedure di azione. L’ingresso dei privati nella gestione di singole parti del patrimonio culturale (concetto diverso da quello di alienazione) è una possibile forma di tutela, ma non senza specifiche normative che ne prevenga-no gli scempi e nel pieno rispetto dell’articolo 9 della Costituzione che «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione», definito dallo stesso Ciampi elemento caratterizzante l’identità europea. È noto che monumenti, musei, riserve ambientali del nostro paese costituisco-no un patrimonio culturale di inestimabile valore ed una risorsa rilevante per l’economia, per cui è più che mai necessaria una legislazione attenta a garanti-re correttezza nelle procedure, oculatezza negli investimenti e saggezza nelle forme di gestione partecipativa fra pubblico e privato.
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