L'arte bipartisan di demolire la nostra cultura Ernesto Galli Della Loggia Sette, Supplemento del Corriere della Sera, 14/11/2002
Volendola mettere nella maniera più approssimativa e semplicistica si potrebbe dire che si vanno moltiplicando nel Paese, in special modo negli ambienti intellettuali, le avvisaglie di qualcosa che assomiglia a un "ritorno a Gentile". Attenzione: il fascismo del Duce, di Starace e del Tribunale speciale non c'entra per nulla, fortunatamente non si segnala in giro nessuna velleità liberticida. Il nome di Gentile che mi viene da adoperare allude a qualcosa di assai diverso: a un'idea alta dello Stato come rappresentante di aspetti costitutivi della nostra identità e comunità nazionale, a un'idea forte di retaggio culturale come qualcosa che definisce in modo peculiare tale identità e comunità, allude infine alla necessità di apparati istituzionali compresi della funzione statale di cui sopra e capaci di svolgerla adeguatamente. Lo so benissimo che tutte queste cose sono comuni anche a tradizioni ideologiche che da Gentile e dalle sue opzioni politiche sono lontanissime, ma è anche vero che come intellettuale e massimo organizzatore di cultura, nonché come uomo pubblico, Gentile può ben essere considerato una specie di rappresentante per eccellenza delle idee sopra ricordate.
Il nome di Gentile è suggerito poi in particolare dall'ambito nel quale si avvertono in maniera più pronunciata i sintomi di un ritorno alla centralità della prospettiva cultural-identitaria, dell'importanza della tradizione nazionale, dell'esigenza che vi sia un efficace intervento pubblico a difesa dell'una e dell'altra. Si tratta dell'ambito che riguarda la trasmissione del sapere e la formazione della soggettività, nonché gli apparati ideologici della società inteso nel senso più vasto (dalla televisione al giornalismo). Ebbene, in tutti questi settori è sempre più diffuso se non sbaglio, da parte dell'opinione pubblica colta e di molti addetti ai lavori, un sentimento di reazione a quanto è accaduto negli ultimi vent'anni. Reazione al ripudio esibito di qualunque criterio meritocratico nel curriculum scolastico, alla casualità informe, alla superficialità modaiolo-enciclopedica dei programmi che li governano, alla perdita di senso che ne è derivata per istituzioni come la scuola e l'università; ancora: reazione al disinvolto abbandono del legame con il passato, di quanto fin qui ritenuto ovvio e positivo, reazione al progressivo disinteresse per tutto ciò che nel corso del tempo è venuto formando l'identità del Paese, e dunque per quello che è stato il modo "nostro", italiano, di definire e organizzare il mondo; reazione alla fissazione mercantile-privatistica che via via ha preso a dominare le menti e le decisioni della classe politica nel campo della cultura, e reazione alla sciatteria e alla volgarità intellettuale con cui il più delle volte si è proceduto a "riformare". Quello che ho chiamato "ritorno a Gentile" dei ceti colti muove dal rifiuto delle cose che sono venuto elencando e di una ritrovata ragione della difesa dell'identità storica del paese, del suo passato ma insieme anche della possibilità che esso abbia un futuro non annegato nella indistinta modernità. Tra i fatti più significativi e interessanti che caratterizzano tale rifiuto c'è la labilità del confine destra-sinistra. In un duplice senso: che in esso si ritrovano persone che muovono tanto da un punto di vista di destra che di sinistra, che provengono da itinerari ideologici anche opposti, e che la loro critica si rivolge anch'essa a entrambi gli schieramenti, a decisioni attribuibili tanto a ministri della destra che della sinistra.
Esempio tra i più convincenti del clima di cui sto dicendo, è il bellissimo libro di Salvatore Settis Italia s.p.a. appena uscito da Einaudi. Due sono i punti su cui si concentra l'attenzione di Settis, che, lo ricordo, è uno dei nostri più valorosi storici dell'arte. Il primo è quello della importantissima funzione civile che il patrimonio culturale ha svolto nella storia d'Italia. Non già questa o quella grande opera ma il contesto, il continuum fra i monumenti, la città, i cittadini ha costituito l'elemento decisivo dell'identità dell'Italia e delle piccole patrie che la compongono. Anche per questo è in Italia che è venuta formandosi, fin dall'inizio dell'unità, la concezione più ampia e coerente di tutela del patrimonio culturale, articolata in istituzioni apposite (le soprintendenze), e garantita da un sistema di ottime leggi (a cominciare da quella del 1939) poi compendiate e per così dire esaltate nella disposizione costituzionale. Insomma, se c'è un patrimonio pubblico per antonomasia, un patrimonio che appartiene a tutti i cittadini perché è la base stessa della storia del Paese, del senso più profondo della sua identità collettiva, questo è proprio il patrimonio culturale. Ma negli ultimi 10-15 anni si è messo in moto un meccanismo infernale che ormai rende plausibile l'ipotesi che tra non molto di quel patrimonio imponente possa restare nelle mani dello Stato italiano, cioè di noi tutti, poco o niente. Sono avvincenti e si leggono di un fiato - anche se con un senso di crescente raccapriccio - le pagine in cui Settis illustra il tortuoso itinerario attraverso il quale ha preso corpo l'imminente catastrofe: dall'idea di una "arretratezza" italiana nel campo della gestione dei musei rispetto al modello americano, alla feticizzazione delle "attività culturali", alla larvata monetarizzazione cui allude la dizione di "beni culturali"; dalla crisi di una qualunque cultura istituzionale tanto a destra che a sinistra, fino alla lugubre marcia trionfale - aperta da Veltroni e Melandri e accelerata allo spasimo da Urbani e Tremonti - della potenziale privatizzazione-alienazione del patrimonio culturale, sempre più concepita da quelli che avrebbero dovuto esserne i custodi come una pura e semplice riserva di valori da alienare al migliore offerente.
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