Sui beni culturali non serve lo scontro politico Ledo Prato Il Tempo 10/11/2002
Nel volgere di pochi giorni sui beni culturali si sono pronunciati imprenditori, studiosi, commentatori autorevoli. Anche il Ministro Urbani, rompendo un lungo silenzio, ha annunciato una nuova legge a tutela dei centri storici in occasione di manifestazioni di piazza. Avocando al suo ministero ogni decisione. Non mancheranno polemiche. Ma andiamo con ordine. Ha cominciato Cesare Romiti, su Il Sole 24 ore, con un appello al Presidente del Consiglio perché si riveda la norma sull'alienazione dei beni culturali e non si consegni la gestione del patrimonio ai privati. Nobile il gesto dell'imprenditore, discutibile il terreno che ha scelto per questa uscita. Il rapporto tra pubblico e privato nei beni culturali torna così ad essere al centro dell'attenzione. La discussione è sempre polarizzata: da una parte coloro che ritengono la «privatizzazione» della gestione dei beni culturali una delle forme da perseguire per la loro conservazione e valorizzazione e chi invece ritiene che il loro profilo giuridico, sociale ed etico ne impedisce una qualunque forma di alienazione o anche solo i gestione affidata a privati. E così Romiti disegna tinte fosche per il futuro del nostro patrimonio. Anche quando accenna ai pericoli, a suo dire, che può innescare l'applicazione dell'art. 33 della legge finanziaria (con cui si prevede la possibilità di affidare a «soggetti non statali» la gestione di un bene culturale). In realtà Romiti su una cosa ha ragione: gli interventi legislativi di questi ultimi anni sono stati spesso contradditori, di difficile gestione. In altri termini è ancora difficile capire quale è il disegno che le istituzioni pubbliche intendono perseguire a proposito della valorizzazione e gestione dei beni e delle attività culturali. Per questo motivo c'è un fondo di ragione nell'editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di qualche giorno fa quando afferma che era legittimo attendersi qualcosa di più in questo settore, come nell'istruzione, da un governo che aveva denunciato, in questi ambiti, un «soffocante predominio» della sinistra. Manca un'idea nuova e chiara su che cosa possiamo proporre, da- re e fare, per rendere questo patrimonio non solo la sede identitaria di un Paese molecolare ma anche la cifra dello sviluppo compatibile, dentro, e lo strumento più prezioso, fuori, per una intelligente politica estera. Senza questo «profilo alto» ci rimane solo la polemica di Romiti oggi, degli ambientalisti e dei «conservatori» ieri. Trascinando in questo vortice non solo le istituzioni centrali e periferiche del ministero ma mortificando vitalità e oggettualità così diffuse in questo settore. In un tempo in cui tutti o quasi apprezzano il «decisionismo» sarebbe un grande gesto politico provare ad aprire le porte ad un dibattito franco, aperto, con tutti coloro che vogliono o possono contribuire ad individuare un nuovo «senso di marcia». Si possono chiamare «stati generali», o come vi pare, ma il senso deve essere chiaro. Anche così si risponde a chi, forte di competenze ed esperienze internazionali, rintraccia un «filo nero» fra governi di colore diverso per accomunarli in un giudizio severo e preoccupato a proposito delle politiche per i beni culturali. Ci riferiamo a Salvatore Settis che, approfittando della pubblicazione del suo ultimo libro, «Italia Spa - L'assalto al patrimonio culturale» scrive e rilascia interviste «nostalgiche». Rimpiangendo la vecchia legge 1089 del 1939, la rete dei sovrintendenti capaci e dediti solo alla ricerca e allo studio, la gestione statale del patrimonio lontana dalle mire di regioni, province e comuni e, perché no, di privati. Un tentativo, a tratti retorico, di ridurre il dibattito ad uno scontro tra gli «angeli» del patrimonio e i «vandali» che vogliono americanizzare tutto. Con una punta di fastidio, per usare un eufemismo, verso quanti ai vari livelli delle istituzioni locali si adoperano, in ragione del mandato democraticamente avuto dai cittadini, per valorizzare il proprio patrimonio. In questa situazione è troppo invocare una direzione politica «alta» chiedendo a maggioranza e opposizione di uscire dalle schermaglie quotidiane? E agli operatori è troppo chiedere che, nel rispetto del principio liberale che assicura a tutti il diritto di esprimere le proprie opinioni, ciascuno compia uno sforzo per esporre il proprio punto di vista con maggiore cognizione di causa e senza «buttarla sempre in politica»?
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