Urbani: Non venderemo mai i tesori dell'Italia Paolo Conti Il Corriere della Sera 15/11/2002
ROMA - «In estrema sintesi e una volta per tutte: non ci saranno mai dismissioni dei nostri monumenti. E nessuna dismissione metterà mai in discussione il sistema dei vincoli». Martedì 19 novembre uscirà il libro «II tesoro degli italiani» (Mondadori), una conversazione con il ministro per i Beni e le attività culturali Giuliano Urbani. Un testo che dovrebbe, secondo Urbani, chiudere le polemiche sulla nascita della Patrimonio spa e sulle dismissioni di beni demaniali culturali. Ma Urbani annuncia anche che, grazie alle grandi opere come il Ponte sullo Stretto di Messina, sono in arrivo nel prossimo quadriennio per i beni culturali circa 4 miliardi di euro. E vedremo poi come. Il suo libro arriva in pieno dibattito. E' appena uscito «Italia spa» di Salvatore Settis, molto polemico coi progetti di cui si discute. Soprattutto sulla Patrimonio spa... «Vuol dire che i tempi erano maturi. Da amministratore pubblico dico che non possiamo permetterci il lusso di vivere nelle incomprensioni. Quindi voglio chiarire i dubbi. Considero emblematico come esempio di equivoco proprio il caso di Settis. Ho letto il suo appassionato e intelligente libro, ho riscontrato una gran quantità di convergenze ideali ed etiche. L'ho chiamato e ci siamo visti a pranzo giorni fa». Risultato dell'incontro? «Non svelo ciò che spero renderemo pubblico insieme quando Settis rientrerà dal Giappone. Ma collaboreremo». Lei dice: voglio dissipare ogni dubbio. Con quali strumenti? «Quello principale: il nuovo codice dei Beni culturali che nascerà con la legge delega di riforma del ministero. All'articolo 1 ci sarà una definizione sintetica di ciò che è patrimonio artistico. Richiameremo il sistema dei vincoli per la tutela, che prescinde dal titolo di proprietà. Poi ci saranno le regole per le eventuali dismissioni e lì richiamerò il dpr 283 del 2000 che disciplina con chiarezza le alienazioni del demanio storico e artistico. Costituirò un microscopico comitato per percorrere il tragitto nuovo codice-legge delega. Ci saranno nomi di assoluto livello e garanzia. Posso dire che Sabino Cassese per esempio ha già accettato di aiutarmi». Possibile che allora in tanti abbiano preso un abbaglio, ministro, e si siano messi a discutere tutti insieme? «I problemi sono nati dall'articolo 33 della finanziaria dell'anno scorso. Si è equivocato grossolanamente tra gestione in concessione e cessioni. Subito si è parlato di privatizzazioni. Io urlai immediatamente: non c'è privatizzazione perché il soggetto concedente, lo Stato, conserva la piena proprietà. Ci avvicineremo invece alle gestioni in concessione perché abbiamo bisogno di investimenti. Lo stesso Giacomo Vaciago, economista certo non vicino a questa maggioranza, lo ha detto molto bene: pensavamo di risol- vere il nodo dei beni culturali con la proprietà pubblica ma non è così. Infatti una parte di quel patrimonio va allo sfascio perché la sola titolarità pubblica non garantisce un bel nulla». Insisto con la domanda. Ci sono non solo le perplessità dell'Ulivo ma anche di un Settis, del Fai presieduto da Giulia Maria Crespi, forte dei pareri proprio di Cassese, Vittorio Ripa di Meana, Domenico Fisichella e altri studiosi. Cesare Romiti è intervenuto molto criticamente su «II Sole 24 Ore». Le ripeto: possibile che si siano sbagliati tutti insieme? «E' facile non capirsi, in vicende così articolate, anche tra persone dotate di un armamentario diagnostico in campo culturale molto simile. Posso ottimisticamente attribuire tutto questo al grande amore che nutriamo per il nostro patrimonio. A volte però mi assale il pessimismo per la superficialità con cui talvolta si leggono le cose. Ma io sono un amministratore pubblico e tocca a me dissipare possibili equivoci». Perché lei votò per la Patrimonio spa con Tremonti? «Perché ogni decisione viene presa solo in intesa con il nostro ministero, perché la tutela resta un valore e un potere essenziale e perché le dismissioni sono regolate dal famoso dpr 283 del 2000». Cosa finirà allora nelle mani della Patrimonio spa? «Un mare di roba: palazzi, colonie marine, terreni. Lo ammette anche Settis nel suo libro. Abbiamo un demanio da Paese socialista da dismet- tere che resterà, ovviamente se lo è, pienamente vincolato proprio co- me prima». Con la cartolarizzazione quali rischi corrono i beni culturali? «Nessuno. Per il semplice motivo che non cartolarizzeremo mai il bene, mettiamo gli scavi di Pompei, ma eventualmente i servizi, per esempio la biglietteria di Pom- pei». Ultima domanda sulla legge delega. C'è chi teme per la sorte della legge 1039 del 1939, considerata da tutti l'architrave della tutela in Italia: la rivedrete? «Sì, ma solo per aggiornarla, potenziarla e svilupparla. Non per sradicarla. Lo spirito informatore è perfetto: la tutela tocca allo Stato. Fondamentale! Ma dobbiamo rivedere molte cose: la formazione e l'aggiornamento del personale. Una certezza nei ricorsi, che ora passano solo per il Tar. L'adeguamento degli organici e dei mezzi economici. Bisogna insomma liberare l'amministrazione dalla gestione e dal merchandising restituendo a sovrintendenti e direttori di musei l'orgoglio di chi esercita una funzione costituzionale, quella della tutela». In quanto al ruolo dei privati? «Sbaglia chi immagina di ricavare dai beni culturali un utile economico immediato secondo un'ottica aziendale. In quel caso ripeto: via i mercanti dal Tempio. Investire nell'arte del nostro Paese nell'era della globalizzazione, significa poter utilizzare il brand italiano più noto nel mondo che legittima ben più di ogni pubblicità». Arriviamo ai soldi pubblici: i tagli sono tanti... «In verità la Finanziaria, su mia proposta, dirotterà sui beni culturali il 3 per cento dei fondi destinati alle grandi opere collegate alle leggi-obiettivo sulle infrastrutture. Grazie a impegni come il ponte sullo Stretto di Messina nei prossimi quattro anni potremmo disporre di circa 4 milioni di euro. Gli sciocchi che hanno parlato di governo talebano in campo culturale sappiano che stiamo mettendo in campo risorse che nessuno ha mai garantito a questo settore». I progetti in calendario? «Sicuramente la conclusione dei Grandi Uffizi e della Grande Brera, il museo della Patria al Vittoriano di Roma, il Nuovo Egizio a Torino, il museo della Moda a Milano e dello Sport a Roma. E altri ancora. Gli impegni sono tanti e non sempre ben compresi. A me dispiace per esempio che Riccardo Muti pensi che facciamo poco per la musica lirica. In realtà stanziamo ogni anno 245 milioni di euro per gli enti lirici. Non va bene, lo so, il modo in cui spendiamo quel denaro. Sarebbe ingiusto esigere una cultura di gestione da un grande direttore d'orchestra. Ma mi seccherebbe molto se Muti pensasse che chi lavora in quel settore non si preoccupi del futuro della lirica italiana».
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