Il Colosseo, i privati e le turbe della Sinistra Gian Luigi Corinto Secolo d’Italia 19/12/2002
A sinistra la confusione è tanta e la cinquantennale occupazione egemonica degli spazi culturali confonde ancora di più le idee agli uomini che da sempre si sciacquano il cervello insieme alla bocca. Ebbene, in omaggio alla loro confusione mentale, oggi non vogliono che il governo «venda il Colosseo». Vedono il ministro Urbani come Totò che vende agli americani la fontana di Trevi, non una ma più di una volta. I più avveduti cercano di non esagerare con le provocazioni, ma all'inizio la propaganda era pesantemente indirizzata alla demonizzazione culturale dei ministri interessati alla privatizzazione della gestione. Questa demagogica provocazione si manifesta non solo con le battute di spirito, ma anche con ben precise prese di posizione parlamentare e perfino con appelli alla Costituzione contro i piani del governo sui beni culturali. Il ministero ha finora inventariato il valore economico dei beni culturali dello Stato e il governo, con la finanziaria in discussione, tenta di metterli a frutto per ricavarne almeno il reddito necessario alle manutenzioni e alla loro perpetuazione. A parte gli scontri nel merito, che saranno risolti dal democratico confronto tra maggioranza e minoranza parlamentare, è doveroso segnalare l'ennesimo abbaglio culturale (in malafede perdurante?) di cui sono preda gli uomini della sinistra. La definizione di «bene pubblico» non coincide affatto con quella di «bene di proprietà pubblica». Un bene prodotto dai privati e che rimane in privato possesso può avere importanti contenuti pubblici, ovverosia d'interesse collettivo. La cultura, e i beni materiali che ne sono l'espressione tangibile e la testimonianza, è certamente un bene che sta a cuore a tutti, ed è quindi un bene pubblico. Tutti vedono come la cultura sia però correntemente prodotta sia da istituzioni private che pubbliche da individui che servono lo Stato e da altri che operano per conto proprio o di imprese private. E allora ci chiediamo: ma perché la gestione pubblica dei musei dovrebbe essere migliore e più efficiente di quella privata? Come la Sanità, come la Scuola? Come le carceri, come altri importanti settori, come la difesa o l'intero sistema della ricerca? Le sinistre non hanno da vantare grandi tradizioni in nessuno di questi campi. E allora, non viene da sospettare che la paura di una gestione privata dei Beni culturali di proprietà pubblica nasconda invece la nostalgia per antichi baracconi ministeriali in grado di assumere intere vagonate di falsi invalidi, falsi figli di profughi, o almeno amici degli amici? E perché il ministero dei Beni culturali era affidato a autorevolissimi sconosciuti mezzi socialisti e mezzi democristiani? Come non ricordare le gestioni socialdemocratiche di ministri come la signora Bono Parrino, o il signor Pacchiano? Vengono i due ricordati per un intervento di restauro, per un recupero di beni lasciati deperire nei sotto-scala, o non piuttosto per le oceaniche assunzioni di precari da avviare a sinecura con molto tempo libero ma dotati di certificato elettorale? Lo Stato oggi non indietreggia né abbandona collezioni e beni culturali, ma tenta una doverosa razionalizzazione della gestione. Alle sinistre tutto quello che tenta di funzionare non può piacere, evidentemente.
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