La ricerca umanistica è sempre Cenerentola Alberto Melloni Il Corriere della Sera 8/4/2004
Il finanziatore privato di cultura — l'impresa in senso lato: la cooperativa, la fondazione bancaria, il consorzio — si muove in Italia con modi primitivi. Paga un dottorando sperando in un brevetto, traffica con la sponsorizzazione sportiva, lucida una chiesa perché «coi miei soldi faccio quel che voglio io». Se mai fa scivolare qualcosa verso i miliardi di disgraziati del pianeta, per essere annoverato fra i telebuoni o per sorridersi nel magico specchio mattutino che riflette le rughe e la coscienza. Per la ricerca resta qualche spicciolo, dove «ricerca» vuol dire scienza in camice bianco, lesta nel ricadere in fabbrica o nel curare le malattie che ci spaventano. Per la ricerca umanistica — la storia, la filosofia, la filologia, ecc. — per il sapere che sa soltanto produrre spirito critico e convivenza respirabile, resta niente, nonostante le leve fiscali. Talune imprese non disdegnano la sponsorizzazione dei grandi eventi (mostre, restauri, concerti, ecc.) e dei festival: occasioni nelle quali l'etichetta scanzonata o la mondanità attirano folle a un consumo culturale che diventa «insostenibile» se a monte non vi sono luoghi che accumulano il sapere. Se si trattadi passare dal consumo alla costruzione del tessuto culturale, allora tutto diventa difficile. Altrove non è così. Qualche dolorosa comparazione? La Fondazione Volkswagen ha investito molti denari per recuperare e pubblicare gli atti del Concilio della Chiesa ortodossa russa celebrato nel 1917, alla vigilia della rivoluzione. Un lavoro di anni che «interessa» meno di mille persone in tutta l'Europa occidentale. Non è stata una scelta ispirata dai gusti di qualche capo interno o dalla politica. Giustamente la Fondazione, che proietta una grande impresa nel mondo, considera strategico dimostrarsi capace di valorizzare una proposta che sa seminare competenze, tradizione, scuola (e alla fine è pure politicamente intelligente). Compariamo? In Italia a una grande banca non bastano dieci mesi per sapere se i diari inediti di Papa Giovanni siano un tema serio... Ma andiamo avanti con qualche confronto. Perché le imprese del porto di Boston pagano la nuova sede del Dipartimento di teologia, mentre gli ex alunni dell'Università di Bologna, fra i quali non sono rari gli abbienti, chiedono all'ateneo di essere finanziati per ritrovarsi? Perché le donazioni di industrie Desanti hanno fatto della biblioteca di Princeton, New Jersey, il più importante luogo del mondo per la ricerca sull'Impero ottomano? Perché uomini d'impresa hanno dato a Berkeley cinquant'anni di primato negli studi sui manoscritti del diritto canonico medievale, a Brown l'iniziativa negli studi su Pico della Mirandola e ad Harvard — a un passo dal Mit — i maggiori esperti degli apocrifi del Nuovo Testamento o dell'antica biblioteca gnostica di Nag Hammadi? La risposta è semplice: un grande Paese sa che il sapere è uno. L'idea di fare a fette il sistema sapere e impilarlo in base a priorità estemporanee testimonia e causa l'arretratezza di un sistema Paese. Il problema non è dunque perder tempo per dimostrare che alla fine anche l'inutile produce reddito o, peggio ancora, per ragionare di un «mecenatismo» obsoleto e insulso. Un sistema economico che si sente esonerato, «disobbligato» dall'investire in ricerca umanistica — biblioteche, laboratori, nuovi musei, luoghi di perfezionamento, grandi edizioni, opere di rango internazionale — testimonia di un limite culturale che non può non avere conseguenze. Perché chi non sa che la crescita ha bisogno di cultura «inservibile», produce declino. I nodi sui quali agire sono almeno tre. L'arretratezza propria del mondo scientifico umanistico, spesso fermo al modello romantico dell'erudito triste e solitario, che non si spende per la generazione futura, ma già la disprezza. La lentezza della classe politica nel dare linee di sviluppo e risorse (si discute in questi giorni in Senato il disegno di legge 1491 per stanziare cinque miseri milioni di euro per tutt'Italia...). Il provincialismo con cui gli esperti del marketing d'impresa o di fondazione calcolano il ritorno degli investimenti: perché affinare le capacità d'investire in ricerca umanistica, significa affinare i sensori di lungimiranza e di disinteresse, che sono il crinale etico di un Paese avanzato, e dovrebbero essere anche al centro dell'interesse delle imprese in senso lato. La cronaca ci ha detto in questi mesi che un apprezzato mecenate del consumo di cultura ha saputo sfilare al sistema bancario e pastorizzare una somma pari a quella che il Parlamento vorrebbe destinare alla ricerca umanistica nei prossimi seimila anni... È giusto così. Ci sono disastri che non sono fragorosi: l'anima che si sbriciola, non fa rumore.
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