Piccolo elogio del deposito Salvatore Settis Il Sole 24 ore 11-LUG-2004
Una delle più ricorrenti banalità che si sentono ripetere dai mille improvvisati Soloni del patrimonio culturale è che i magazzini dei nostri musei sono stracolmi di materiali non in vista, e perciò "inutili". Perché non venderli ai musei stranieri, ma anche a turisti di passaggio, per allietare villette a schiera, tinelli e pizzerie, o come souvenir? Due le implicazioni di questo discorso (incolto, è vero, ma non per questo meno degno di attenzione). Primo, se i magazzini dei nostri musei sono tanto pieni, è (si ritiene spesso) per l'incuria dei loro funzionar!; secondo, questa situazione è tutta italiana, mentre i dinamici musei di un indeterminato e vago "estero" (si immagina) non hanno inutili, ingombranti, costosi magazzini. In tal modo, le pretese superfluità dei magazzini diventano metafora (o simbolo) della ricchezza del nostro patrimonio culturale: ne abbiamo tanto, perché non darne via un po'?
Ma proviamo a entrare davvero nei magazzini del Louvre, del British Museum, del Metropolitan o del Getty: e li troveremo (proprio come quelli dei nostri musei) strapieni di materiali non esposti, perché meno importanti o perché classificati come materiali di ricerca. Periodicamente, nella vita di ogni museo che si rispetti, accade che qualcosa dal magazzino sia "promosso" alle gallerie aperte al pubblico (e qualche volta accade il contrario). Insomma, i depositi di un museo rappresentano una sorta di riserva aurea, in perenne rapporto con le collezioni esposte: devono essere anch'essi visitabili (per gli studiosi), e funzionano (anche) come un serbatoio di sorprese.
Anche il discorso sui magazzini dei musei fa dunque parte di quello, ancor più vasto, che abbiamo fatto in queste pagine sul "patrimonio latente", quello che già ci appartiene, ma ancora non sappiamo bene che c'è (o che cos'è). Anche nei magazzini, e non solo nelle stratificate mura di palazzi e chiese, si celano impensate "novità".
La vicenda raccontata da Clemente Marconi (un brillante archeologo italiano che insegna alla Columbia University) nell'articolo qui accanto è per molti versi singolare. A lui è accaduto (non per caso, ma dopo tenaci ricerche) di scoprire centinaia di frammenti di metope di Selinunte nei depositi del Museo Archeologico di Palermo. Sono frammenti sequestrati dal Governo borbonico nel 1823 a due architetti inglesi, che riemergono alla luce dopo quasi due secoli. Vicenda assai istruttiva, che fa riflettere. Se questa importante scoperta (che chiarirà molti aspetti della decorazione templare di Selinunte) è stata passibile, è grazie alle leggi di tutela borboniche (fra gli antenati più significativi di quelle dell'Italia unita). Ma, si potrebbe obiettare, se i due inglesi fossero riusciti a trafugare i frammenti, forse la loro riscoperta non avrebbe dovuto aspettare tanto. Forse. Ma ancor più probabile è che, dato il carattere estremamente frammentario dei pezzi e la clandestinità dell'esportazione, essi sarebbero stati venduti alla spicciolata, e si sarebbe probabilmente persa traccia della loro provenienza. Da questa vicenda vengono dunque due lezioni importanti: primo, la conservazione deve avvenire in forma contestuale, conservando il marchio d'origine, per consentire prima o poi operazioni di ricomposizione; secondo, i depositi dei musei non sono palle al piede, ma vanno intesi come laboratori di ricerca e serbatoi di conoscenza. E quando si riuscirà a far intendere che la ricerca è il motore, il cuore della tutela?
|