FEDERALISMO DEMANIALE À LA CARTE di Alberto Zanardi 02.02.2010 la Voce.info
Uno schema di decreto legislativo fissa i principi generali e le procedure per regolare il trasferimento di parti del patrimonio immobiliare dello Stato a favore degli enti territoriali. Proprio il procedimento lascia perplessi. Il risultato non sarebbe una devoluzione del patrimonio statale tra diversi livelli di governo sulla base di criteri economici di pertinenza dei beni alle funzioni attribuite agli enti decentrati, ma un'allocazione basata su puri criteri di profittabilità, che lascerebbe allo Stato i beni di minor valore commerciale. Foto di Dirk Hartung da Flickr.
Evviva! È nato il primo figlio della riforma sul federalismo fiscale e si chiama federalismo demaniale. Il relativo schema di decreto legislativo, approvato prima di Natale dal Consiglio dei ministri, fissa i principi generali e le procedure per regolare il trasferimento di parti del patrimonio immobiliare dello Stato a favore degli enti territoriali. LA DOPPIA SCELTA La motivazione di questa operazione è duplice. Da un lato, molti beni immobili attualmente statali sono male amministrati e impiegati dallo Stato. Sotto l’assunto che gli enti territoriali siano in grado di gestire e di valorizzare meglio una parte di questi immobili pubblici è allora conveniente decentrarne la proprietà: un “federalismo di valorizzazione” dice la relazione illustrativa del decreto. Dall’altro lato, via via che si decentrano le funzioni pubbliche a favore di Regioni ed enti locali, è opportuno trasferire anche gli strumenti per la loro attuazione e tra questi strumenti, oltre ovviamente alle risorse finanziarie (imposte), rientra anche parte del capitale fisico, come sono i beni immobiliari, oggi dello Stato. È la procedura prevista per realizzare il trasferimento che lascia perplessi. Il procedimento di attribuzione dei beni immobiliari statali si articola in due fasi. 1) la prima in cui lo Stato (forse) sceglie cosa potenzialmente attribuire agli enti decentrati 2) la seconda in cui gli enti decentrati selezionano da questo elenco, determinato dallo Stato, cosa farsi effettivamente attribuire. La prima fase, tuttavia, non è del tutto chiara nelle sue effettive modalità di applicazione. Si prevede infatti un doppio binario per individuare i beni immobili oggetto di trasferimento. Da un lato viene fissata una serie di principi generali che dovrebbero guidare la selezione dei beni trasferibili (sussidiarietà, adeguatezza e territorialità; semplificazione; capacità finanziaria; correlazione con competenze e funzioni; valorizzazione ambientale) e che sono coerenti con i principi posti dalla legge delega sul federalismo fiscale. Dall’altro lato, i beni immobili da trasferire vengono direttamente identificati per specifiche categorie: tutti i beni attualmente inclusi nel demanio marittimo (le spiagge e i porti di interesse regionale) e nel demanio idrico (i fiumi, i laghi), tutti gli aeroporti di interesse regionale, tutte le miniere, tutte le aree e i fabbricati statali (ad esclusione di alcune sottocategorie specificamente previste come gli immobili appartenenti al patrimonio culturale). Tutte queste tipologie di beni entrano dunque per default nell’operazione di trasferimento. Se poi nell’ambito di queste categorie, un’amministrazione dello Stato ritiene che un certo immobile debba essere trattenuto, dovrà comunicarne esplicitamente l’esclusione e questa decisione dovrà essere adeguatamente motivata e resa pubblica. Inizia poi una seconda fase: l’elenco di beni trasferibili viene proposto, almeno per quanto riguarda le aree e i fabbricati statali, dallo Stato agli enti territoriali. Comuni, province e Regioni possono scegliere quali specifici beni farsi effettivamente attribuire e questa attribuzione è comunque a titolo non oneroso. L’unico costo effettivo (e immediato) per l’ente territoriale che acquisisce l’immobile consisterebbe nella riduzione delle risorse finanziarie che in via ordinaria gli sono oggi attribuite (via trasferimenti dallo Stato) nella misura pari ai mancati introiti (soprattutto canoni di locazione) sofferti dallo Stato a causa della cessione dell’immobile. BENI E FUNZIONI Ci sono diversi aspetti critici del decreto messi in luce da vari osservatori, quali il rischio che le amministrazioni locali non siano in realtà gestori molto migliori dello Stato e che talvolta siano in realtà più esposte a interessi speculativi. Oppure la possibilità prevista dalla norma di attribuire i beni immobili direttamente a fondi immobiliari costituiti da enti territoriali, ma a cui possono partecipare anche soggetti privati, il che esporrebbe al rischio di una svendita del patrimonio immobiliare pubblico. Qui tuttavia si vuole focalizzare l’attenzione sul disegno generale della procedura di trasferimento dei beni immobiliari e sulla sua coerenza con la logica del federalismo fiscale. Come arriverà effettivamente lo Stato a stilare l’elenco dei beni immobili potenzialmente attribuibili agli enti decentrati? Sulla base dei criteri generali sopra richiamati? Oppure prenderà semplicemente tutti i beni delle categorie previste (demanio marittimo, idrico, eccetera) con le eccezioni fatte esplicitamente valere (ma adeguatamente motivate) da parte delle varie amministrazioni statali? A seconda della scelta che verrà fatta, i gradi di libertà riconosciuti allo Stato per selezionare gli immobili da cedere sono ovviamente differenti. Il fatto che gli enti decentrati possano liberamente scegliere cosa vedersi attribuito a partire dall’elenco statale li porterà naturalmente a selezionare solo quei beni su cui esistono più solide prospettive di valorizzazione in termini reddituali, tenendo conto della riduzione dei trasferimenti per i mancati introiti statali di cui si è accennato. Di converso, rimarrebbero allo Stato gli immobili che per le loro caratteristiche di “bene pubblico” possono con maggiore difficoltà essere messi a reddito. D’altra parte, gli enti territoriali potrebbero avere forti incentivi ad acquisire immobili non direttamente collegati alle proprie funzioni e che neppure hanno prospettive immediate di essere messi a reddito, ma che possono risultare attraenti per una loro futura alienazione sul mercato: per esempio con le varianti urbanistiche i comuni possono ricavare da una caserma inutilizzata oggi statale un’area residenziale da alienare. Infatti l’unico freno finanziario a queste operazioni di acquisizione sarebbe la riduzione delle risorse attribuite via trasferimenti e che appare assai contenuta: al massimo 140 milioni di euro secondo la stima della relazione tecnica. Certamente l’attribuzione dei beni immobiliari dello Stato deve derivare da un accordo tra i livelli di governo coinvolti ma è dubbio che il modo più adeguato per arrivarvi sia quello prospettato nello schema del decreto. Il risultato di questo federalismo demaniale “à la carte” sarebbe non tanto una devoluzione dell’attuale patrimonio immobiliare dello Stato tra diversi livelli di governo sulla base di criteri economici di pertinenza dei beni alle funzioni attribuite agli enti decentrati, quanto un’allocazione basata su puri criteri di profittabilità che lascerebbe allo Stato i beni di minor valore commerciale. Inoltre, data questa procedura di attribuzione “in due fasi”, cosa accade quando governi di livelli differenti (una Regione e una provincia, o un grosso comune) oppure governi dello stesso livello richiedano l’attribuzione di un medesimo bene. Si pensi a quei beni che hanno forti esternalità territoriali generando benefici che vanno al di là dei confini di una sola giurisdizione?
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