CAMPANIA - Pomigliano ultima fermata, ora scegliere è un obbligo MARCO ROSSI-DORIA VENERDÌ, 11 GIUGNO 2010 LA REPUBBLICA - Napoli
Questo è il programma civile e personale dei 6 napoletani per ogni mille abitanti che da quasi dieci anni vanno via dalla città. È il programma del decoro e della dignità del Sud. Che, nonostante la Lega, tanti coetanei dei nostri ragazzi, di Treviso o di Torino, di Piacenza o di Udine, hanno imparato ad apprezzare. È il programma dell´articolo 1 della Costituzione: fondarsi sul lavoro. Ma oggi ripartono verso il Nord senza neanche quel programma. Perché vedono la fine di un orizzonte di speranza negli occhi dei loro coetanei settentrionali, spauriti dai morsi della crisi. Terribile, che più terribile non si può. E in questo paesaggio, solcato da un´incertezza che investe il mondo intero, a pochi chilometri dalla nostra città - la quale non vede salvare né aprire un´industria da molti lustri, che conosce un tasso di disoccupazione, in particolare femminile, da terzo mondo e una percentuale di famiglie povere ben oltre un terzo dell´intera popolazione – si assiste da giorni alla mancata chiusura dell´accordo per lo stabilimento Fiat di Pomigliano d´Arco. Sulla cui vicenda solo qualche raro politico spende poche parole e nessun intellettuale un briciolo di attenzione. Una vergogna pari solo alla depressione civile che ci attanaglia. Per il rispetto che si deve a quei ragazzi di Napoli in partenza e anche ai loro coetanei del Nord, vogliamo, per piacere – tutti - ricordare a noi stessi i termini nudi e crudi della vicenda di Pomigliano? Le cose stanno come segue. La Fiat intende investire 700 milioni di euro per risanare una fabbrica da capo a piedi. È un´operazione che può garantire lavoro per diciotto anni. A 4700 operai. Il che significa che garantisce lavoro a altri 12.000 dell´indotto campano. Sono ventimila famiglie. Centomila persone almeno. Persone con un lavoro e una dignità qui. Che fanno il tessuto civile di un territorio. Ad altri 500 operai è stata garantita l´andata in pensione. Perché ne avevano i requisiti. A Pomigliano si vuole trasferire la produzione di massa della nuova Panda, che sta per uscire, una produzione che si intende riportare in Italia dalla Polonia. Si tratta della produzione dell´utilitaria europea che ambisce al primato delle vendite continentali nella stagione della lunga crisi e della possibile ripresa. Si programmano duecentottantamila vetture l´anno. Vetture che promettono la migliore performance ecologica oggi a portata di mano, con motori misti, benzina, Gpl, metano, a bassi costi di consumo, in molte versioni. La Fiat, per garantire queste ambizioni, di fronte a una concorrenza fortissima, chiede 280 giorni lavorativi effettivi, a diciotto turni per 6 giorni a settimana. Ogni operaio avrà due giorni di riposo. L´accordo è a portata di mano. Si è già giunti a una dignitosa mediazione sulle pause passate da 40 a 30 minuti e sulla mensa a fine turno. Ora la Fiat chiede due cose. Che l´accordo sia esigibile e dunque assolutamente protetto dalle micro-conflittualità di azienda o di reparto. E che si dia un taglio all´assenteismo cosiddetto anomalo. Che ha luogo quando, per esempio, c´è una partita di calcio o anche quando c´è uno sciopero in vista e all´improvviso aumentano le malattie a dismisura. Cose che rendono meno credibile la tenuta della produzione programmata. Non è tempo di raccontare frottole sulla beltà della produzione contemporanea: la vita in fabbrica è dura, spesso insopportabile. Si esce stravolti. Ma viviamo in un tempo – è tanto brutto quanto necessario doverlo riconoscere – in cui la vita senza quel lavoro è peggio ancora. Di molto. Forse è davvero l´ora di dire che non ci sono scelte. E il mondo sindacale e politico deve saperlo dire. Forse ci sarà un nuovo ciclo espansivo. E si potranno ri-contrattare i termini delle cose. Ma non ora. Ora è il tempo della serietà davanti a quei ragazzi del Nord e del Sud. È il tempo di un patto forte e dichiarato tra produttori. Che salvi il lavoro e che contribuisca a rimettere il Mezzogiorno produttivo al centro della vicenda economica del Paese.
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