Il tesoro che i critici non volevano vedere Vittorio Sgarbi il Giornale
Non sempre le scoperte hanno il riscontro immediato che la velocità dell'informazione, anche dai luoghi più remoti del mondo, consente. Alcune cose rimangono segrete e misteriose ad oltranza, per quanti sforzi si facciano di renderle note. Così può accadere che un'opera straordinaria, convenientemente accostata al nome di un grande artista come Andrea Mantegna, sia prima rimasta sconosciuta per secoli, poi, una volta individuata e scoperta, rimasta per quasi dieci anni in un limbo, muovendo soltanto la tiepida curiosità di alcuni studiosi. In parte si può capire, e non per il contrastato interesse intorno alla figura del grande artista padovano che, nonostante l'eccellenza, fu guardato, fino a tempi recentissimi, con una certa antipatia dalla critica che, a partire da Roberto Longhi, leggeva, nella rievocazione dell'antico così solenne e paludata, nella visione di Mantegna una sinistra prefigurazione del fascismo. Appare incredibile, ma a Mantegna è toccato un destino opposto a quello di Caravaggio, prediletto da una interpretazione aperta alle suggestioni di una ideologia di sinistra popolare e populista. Così, nella seconda metà del secolo, mentre l'astro di Caravaggio cresceva, su Mantegna calava il silenzio, con un atteggiamento a metà strada fra la diffidenza e l'indifferenza. Soltanto negli ultimi anni mostre e monografie hanno riportato Mantegna al centro dell'attenzione. Ma non tanto che l'attribuzione a lui di una importante scultura fosse in grado di muovere la tiepida attenzione degli informati e la forte resistenza della critica. Così la vera notizia di oggi e che la notìzia è arrivata con dieci anni di ritardo, e da un luogo non lontano, benché imprevedibile, Per l'arte padovana il territorio più fertile non è certamente la Basilicata, nonostante la varietà di testimonianze, anche venete, che accoglie. Così, quando nel 1996 Giara Gelao, attenta studiosa (ha appena curato un volume sulla Scultura del Rinascimento in Puglia), diede notizia del ritrovamento di una importante scultura di forte impostazione classicistica nella Cattedrale di Irsina, proponendo di attribuirla ad Andrea Mantegna, la reazione immediata fu scettica e distaccata, riscuotendo una modesta attenzione anche per ricusarne l'attribuzione. Non da parte mia, peraltro, che, molto incuriosito per l'altissima qualità della scultura, in più di una occasione mi sono recato sul luogo del ritrovamento. Gli argomenti della studiosa sono molto convincenti, anche perché posano su un poemetto in lingua latina sulla vita di Sant'Eufemia vergine e martire di Pasquale Verrone. Dal poemetto si viene a conoscere che l'opera fu portata a Montepeloso, il nome antico di Irsina, da Roberto de Amabilibus, originario di Montepeloso e rettore a Padova della Chiesa di Sant'Eufemia, dove si custodiva il corpo della Santa. Con la bella scultura, di integra policromia, il De Amabilius portò nella sua città d'origine una reliquia del braccio di Sani' Eufemia, una statua della Madonna con il Bambino, anch'essa conservata nella Cattedrale di Irsina, e una tela con l'immagine della Santa, identificata con quella ora conservata al Museo nazionale di Capodimonte, firmata e datata dal Mantegna 1454. Ma, non bastassero questi elementi esterni, la scultura ha una eletta nobiltà classica che ne impone un'alta considerazione sul piano estetico e sul piano critico. Essa è certamente un capolavoro. A dieci anni esatti dalla sua scoperta, nell'anno delle celebrazioni del quinto centenario della morte del Mantegna, il Comitato nazionale da me presieduto ha stabilito di esporre la scultura a Padova o a Mantova, facendola risalire nei luoghi della sua origine. Forse allora la notizia che oggi è apparsa sensazionale, nonostante il ritardo, troverà la verifica del consenso di quegli studiosi scettici che sino ad oggi non hanno fatto il viaggio ad Irsina, dove si è fermata Sant'Eufemia prima che Cristo si fermasse a Eboli.
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