Giù le mani dal patrimonio artistico Beppe Del Colle Famiglia Oggi, N. 8/9, Agosto – Settembre 2002
L’idealismo crociano, Marx, la dottrina sociale della Chiesa sono divenuti secondari. Adesso impera l’economia, la nuova divinità cui sacrificare tutto. Anche l’identità di un popolo. La constatazione è davvero triste.
A metà dello scorso giugno, mentre il Parlamento aveva approvato definitivamente la legge istitutiva della "Patrimonio Spa" e della "Infrastrutture Spa"; mentre il Presidente della Repubblica l’aveva appena firmata, inviando però, con una iniziativa del tutto inconsueta, una lettera al Presidente del Consiglio per invitarlo a utilizzare quella legge con la massima attenzione a maggior tutela dei beni pubblici, «in primo luogo quelli culturali e ambientali», introducendovi opportune «norme correttive»; mentre infuriava una polemica fra il ministro dei Beni culturali Urbani e l’allora suo sottosegretario Sgarbi, sempre a proposito di quella legge, che affida in pratica al solo ministro dell’Economia la gestione delle due Spa (o almeno così era parso sia a Sgarbi, sia all’opposizione, sia allo stesso presidente Ciampi, che se no non si sarebbe preso la briga di scrivere quella lettera); ebbene, proprio mentre capitava tutto questo, guarda caso, uno dei temi proposti per la prova di italiano agli esami di maturità riguardava esattamente l’argomento in questione: la conservazione del «patrimonio artistico e monumentale che, oltre a rappresentare una importantissima testimonianza della nostra storia, costituisce al tempo stesso una primaria risorsa economica per il turismo e lo sviluppo del territorio». Nulla da eccepire a quanto abbiamo scritto finora: il Governo terrà conto delle raccomandazioni del Capo dello Stato dove lo riterrà necessario (ma pare convinto d’aver fatto tutto il desiderabile in una materia tanto delicata quanto impossibile da definire in tutti i dettagli: un elenco dei patrimoni pubblici italiani è impensabile, né si può immaginare un ministro dell’Economia che decida di mettere in vendita il Colosseo). Ciò che piuttosto emerge dal contesto della disputa tanto bizantina (quali e quanti ministri, in base a quali criteri, dovrebbero vigilare sulla tutela di quei beni? E in una stagione federalista, Regioni, Province e Comuni non hanno nulla da dire, visto che i relativi demanii hanno anch’essi beni in abbondanza? Che ne sarebbe della normativa vigente che divide i beni pubblici in alienabili e inalienabili?) è un aspetto che la polemica politica ha pressoché trascurato, forse per un eccesso di pudore (o di vergogna) ma che il tema per i maturandi ha citato con allegra noncuranza, come se fosse del tutto naturale: niente è da considerarsi intoccabile di fronte al denaro. Se lo Stato ha le casse vuote e non sa come rimediare al debito pubblico; e se l’idea principe della postmodernità italiana è il cosiddetto «sviluppo del territorio» in chiave economica, allora davvero non si vede perché non si debba «vendere il Colosseo». L’ambiente – naturale o culturale, cioè tutto quello che ci circonda e fa parte della nostra vita e ci spiega a noi stessi – vale finché è di tutti, cioè di nessuno in particolare. Se si accetta per legge che possa essere venduto, o comunque, per dirla pudicamente con il ministro Tremonti, che si possa «valorizzare e ricavare un reddito da beni che fino ad oggi hanno rappresentato solo dei costi per le casse pubbliche», allora bisogna pur porsi un problema molto semplice. Supponiamo – anche se l’ipotesi resta assurda – che la famiglia di magnati CQ & Sons decida di acquistare il Colosseo. Se lo fa per beneficienza, cioè accollandosi i costi sostenuti finora dallo Stato italiano e utilizzandolo nella maniera attuale, cioè per consentirvi le visite dei turisti, l’organizzazione di spettacoli, l’inserimento nella Via Crucis del venerdì santo, tutto bene. Ma se lo fa per ricavarne il reddito che finora nessuno ha potuto realizzare con e nel Colosseo accogliendovi quelle attività, cosa può capitare? La cosa è del tutto indifferente al Governo, al Parlamento, alla collettività nazionale? Monetizzare ogni cosa L’esempio si può moltiplicare per un’immensa, incalcolabile quantità di volte: l’Italia è il più bel Paese del mondo, in tutti i sensi, nell’arte come nella natura, come nella varietà dei climi, come nella storia, come nei prodotti della terra. Si può considerare questa fortuna come intangibile, accontentandocene e ringraziando Dio, o convertirla in una "Patrimonio Spa" in base al principio che ciò che conta sono i soldi che può renderci mettendola a disposizione di chi vuol comprarla (o gestirla con mentalità d’impresa). Un candidato sindaco a Torino propose, in campagna elettorale, di istituire un grandioso, efficiente Museo della Sindone (che peraltro già c’è, modesto ma a disposizione di tutti) per accrescere l’appeal turistico di una città finora ancorata alla sola risorsa industriale ma aumentando così – disse letteralmente – anche il significato della Sindone. Il candidato non passò ma l’impressione è rimasta: qualcuno pensa che si possa far soldi con qualsiasi cosa. E se la gente gli dà retta, può anche capitare che il Colosseo, un giorno o l’altro, sia venduto per una qualsiasi ragione da un Governo legittimo, grazie a una legge altrettanto legittima, votata da un Parlamento pienamente democratico. In tutto questo spiacevole e a tratti imbarazzante "caso Patrimonio Spa e Infrastrutture Spa" ciò che più ci ha colpiti è che l’idea di utilizzare l’ambiente come fonte di reddito economico e di incentivi allo sviluppo sia stata inserita in un tema d’esame per ragazzi di 18-19 anni. È la prima volta che capita, in una scuola italiana influenzata fino a pochi anni fa o dall’idealismo crociano, o dall’ideologia marxista, o dalla dottrina sociale cattolica. Adesso, l’ideologia vincente è quella del denaro. Ed è giusto che si imponga anche a scuola. Ma è anche un poco triste.
http://www.stpauls.it/fa_oggi/0208f_o/0208fo54.htm
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