LA DEA QUACÌNA E LA VALLE DEGLI SCEMPI PIPPO RUSSO MERCOLEDÌ, 08 SETTEMBRE 2010 LA REPUBBLICA Palermo
I dioscuri Pico e Pala, la musa Lauretta e la ninfa Sodana, la tentacolare dea Quacìna e le erculee fatiche dell´appartatùri, e infine i grandi riti stagionali dell´Edificabilità e della Condonanza. Tutti elementi di un´epica futura, costruita fra i secoli XX e XXI a beneficio dei posteri. E in fondo è il tempo che passa, unitamente alla narrazione che se ne fa, a trasformare in mito le dozzinalità e bassezze del quotidiano. Su tutto ciò rifletterà il viandante, dando le spalle al Tempio di Ercole e guardando Agrigento, lassù. E girandosi ora verso questo e ora verso quella rifletterà sulla continuità che guida le cose umane dentro questo lembo di terra mediterranea.
C´è forse il medesimo genius loci in quelle colonne asimmetriche del tempo che fu e in quei palazzoni sghembi del passato che sarà? Assolutamente sì, se ci si deve fidare del giudizio formale. Soltanto lo sguardo cambia. E in questo caso lo sguardo che conta è quello degli indigeni, ancora intossicato da pregiudizi e forse da malafede. Sono proprio i giurgintàni a non scorgere la continuità, e quella linea d´isomorfismo che unisce il Parco attuale costruito sul passato e il Parco dell´Attuale che verrà edificato in futuro.
È una sorta di cecità locale a attanagliarli, l´umana impossibilità di vedersi per come si è e per la continuità che si rappresenta fra epoche diverse. Per loro esiste il Parco Archeologico dei Templi, laggiù nella Valle che scende verso il mare; e esiste una città dalla quale guardano la Valle, i Templi e il mare, ma che per loro è la forma del quotidiano. E ogni follia può essere norma per chi l´abita giorno per giorno. Di più: a far loro velo sono le considerazioni sul presunto maggior valore della classicità rispetto al presente, e anche la cattiva coscienza d´aver cinto d´assedio la Valle come se si trattasse d´un presepe intorno al quale far scorrere le ordinarie faccende di casa. Invece dovrebbe toccare proprio agli agrigentini cogliere lo specchiarsi reciproco delle rovine passate-presenti e presenti-future. Perché in ampia misura quella continuità e quell´isomorfismo riflettono un´anima collettiva, e la persistenza di un tratto etnico che li fa così diversi dal resto delle genti di Sicilia. Si fa presto a dire che ogni gens locale è unica, nell´Isola come altrove. Però davvero la gens giurgintana è unica, e la sua unicità sta nell´edificar rovine. Giocando col suo territorio un gioco sbilenco dove il senso della caducità è dominante, e il costruito non è a beneficio dei viventi. Non lo sono i Templi, i quali parlano d´un passato che per gli agrigentini sembra essere una sacca di cose e memorie scordata lì come uno zaino da turisti, e di cui tocca loro essere svogliatamente custodi. Ma non lo è nemmeno quell´ipertesto di cemento, costruito a beneficio di chiunque tranne che dell´abitante. Il quale si trova spesso a vivere dentro bozzoli mai dischiusi. Colate di grigio il cui orizzonte è impedito da altro grigio, e edificate su terreni che da quel momento in poi attendono e bramano nulla più dello sprofondare inferno. Fra questi due territori di rovina si muove l´agrigentino. Che non vede e non sa, però respira la postumità di quei due parchi che gli appartengono da sempre. E se soltanto comprendesse, assumerebbe l´accortezza di preservare almeno uno dei due. Ma non certo quello delle rovine classiche, ormai abusato e dozzinale. Quello contemporaneo, semmai. Sarebbe interesse suo, dell´agrigentino, nascondere agli occhi dei foresti le rovine rovinanti. Cancellarle alla vista dei viandanti, per far in modo sia esse un giorno oggetto di scoperta. Ché dove s´è visto mai declinare l´archeologia al futuro? Basterebbe installare una batteria di pannelli che cinga la città preterintenzionale, corredata da una gigantesca scritta: "Parco a Tema sulla Civiltà Edilizia Agrigentina. Stiamo lavorando per i vostri pronipoti". Non si può eccedere in generosità coi turisti, non si può inflazionare l´offerta d´attrazione archeologica. A ogni tempo le sue rovine rovinate, e che i posteri dimostrino di meritarsele le rovine rovinanti giurgintàne.
|