NAPOLI - «L’opera di Paladino? Uno scempio quel muro dentro Palazzo Reale» di TOMASO MONTANARI 13 ott 2010 corriere del Mezzogiorno Salerno
Alterata la prospettiva architettonica nel giardino
Perché si è deciso di violare il giardino della città, luogo simbolo della sua identità?
Fino ad oggi l’ultima opera di Mimmo Paladino ha fatto discutere soprattutto perché l’artista ha voluto nasconderla in segno di lutto per l’«arte che muore». Ma ora che Prova d’orchestra è visibile e pubblica, essa costringe ad una discussione ben altrimenti drammatica circa la sorte dell’arte. Ma, questa volta, dell’arte più indifesa: quella del passato.
L’opera è una sorta di traduzione permanente dell’effimera Montagna di sale che l’artista realizzò in Piazza Plebiscito, e consiste in un dosso di cemento, irto di cavalli dalla testa di alluminio e compresso tra due alti muri di pietra. Tutto questo è stato concepito come una sorta di colossale cornice al lucernario che serve ad illuminare la nuova, bellissima sala di prova ipogea del San Carlo.
Ma se l’installazione emanava un indubbio fascino, questa sua versione monumentale e perpetua lascia profondamente sgomenti, e suscita non pochi interrogativi inquietanti.
Perché, invece di mimetizzare la necessaria presa di luce rispettando la vegetazione, si è deciso di violare il Giardino per eccellenza della città, luogo simbolo della sua identità storica fino dai tempi di Petrarca? E, per raggiungere questo discutibile risultato, si sono forse abbattuti degli alberi secolari?
Perché si è osato infrangere e rovinare per sempre la prospettiva architettonica del Palazzo Reale visto da Castel Nuovo, vulnerando un segno fondamentale delle vedute che hanno consegnato a tutta Europa il ritratto di Napoli? Perché si è voluto sprecare (anzi vanificare, anzi pervertire) un’opera di qualità mettendola in contrasto distruttivo con un luogo già carico di qualità storiche che si speravano indelebili? Non sarebbe stato meglio destinare quell’opera ad uno degli innumerevoli spazi urbani in cerca di identità?
E come è possibile che la Soprintendenza abbia consentito un simile scempio storico ed estetico proprio nella sua stessa sede? Una scelta così spregiudicata non rischia di trasmettere l’immagine di un organo dello Stato che si considera sciolto da quelle stesse regole che è chiamato ad imporre a tutta la comunità?
Se si riteneva necessario commissionare un’opera così cospicua in un luogo tanto delicato, non sarebbe stato saggio creare una commissione che comprendesse anche storici dell’arte e dell’architettura e dei giardini? E non sarebbe stato opportuno pensare ad un bando internazionale, che permettesse di confrontare proposte diverse e di porre limiti ben precisi?
Naturalmente non si vuol dire che i centri monumentali delle città storiche italiane debbano rimanere impermeabili all’architettura e all’arte del nostro tempo: ma è vitale che questi interventi creino un dialogo, e non una lacerazione arbitraria e sterile del fragile, ma eloquente, equilibrio che abbiamo ereditato. L’opera di Paladino rischia di essere un segno di lutto anche dopo che è stata svelata: il lutto per un’arte e una storia che non siamo più capaci di leggere.
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