SICILIA - Il paesaggio In trent'anni ho visto molte cose andare sempre peggio dall'abusivismo alla sporcizia dilagante SALVATORE FERLITA La Repubblica 31-10-10, pagina 9 sezione PALERMO
PieroGuccione
DI SOLITO si va via dalla Sicilia, per cercare altrove fortunae lavoro. Per inventarsi un futuro. Piero Guccione, ulisside al contrario, negli anni Ottanta, dopo avere fatto gruppo con Attardi e Vespignani incrociando più tardi Renato Guttuso, a un certo momento invece ha deciso di far ritorno nella sua terra, sbattendo la porta in faccia ai riti e alle liturgie della capitale. «Avevo scelto Roma perché, rispetto a Milano, era più vicina alla Sicilia. Certo, lì c'erano gli artisti che mi interessavano. Ma tornavo ogni estate, nella mia casa di campagna tra Scicli e Modica. E così, da buon siciliano, decisi di mollare tutto. Nel frattempo, Roma si degradava sempre più. Lo so, non tutti fanno scelte del genere. Ci vuole un po' di coraggioe soprattutto una forte nostalgia: i siciliani sanno perfettamente cosa sia». La Sicilia, dunque: quella lontana dal centro, periferica: «Per me non contava tanto la dislocazione: a me interessava soltanto il mio lavoro, e non pensavo al suo esito esterno». Guccione rimette piede nell'Isola e si rimbocca le maniche: si mette in ascolto del silenzio, quasi come un monaco stilita. E dipinge, senza mai stancarsi: ha davanti agli occhi il mare, la luce, i colori della terra. E quello che vede viene imprigionato dalla tela: «Sono sempre stato un pittore visivo, ho lavorato sulla visibilità delle cose. Quando ero a Roma, del resto, dipingevo la città, le automobili, insomma quello che vedevo ogni giorno. Una volta tornato qui, ho cominciato a raffigurare il mare, la campagna. Io dipingo quello che mi sta davanti agli occhi e mi emoziona: qui su tutto prevale la natura». Così facendo lei ha reinventato il paesaggio siciliano, liberandolo delle incrostazioni di una iconografia oramai stereotipata. «Tutto questo fa parte dei processi immaginativi che sono propri di un pittore. Non basta la visibilità, bisogna aggiungere qualcosa che è dentro di noi. Qualcosa che appartiene all'inconscio e che poi sta alla base di ogni produzione estetica. Dalla mia casa ho avuto una visione continua del mare, che potevo esplorare come volevo. Una volta ho realizzato un quadro molto grande, tutto mare, intitolato "L'ultimo mare", pensando che davvero fosse l'ultimo. Ma ho continuato a esplorarlo». È diventata ormai proverbiale la sua riservatezza,a Sciclie dintorni: poche parole, il suo starsene in disparte, quasi una corazza caratteriale. Però, a un certo punto, ha dato vita, assieme ad altri artisti locali, al "Gruppo di Scicli": come lo spiega? «Sono riservato, è vero, non amo la confusione né il profluvio di parole: standosene qui, poi,e non, che ne so,a Berlino, lontano dunque dai centri che producono cultura, da dove le cose accadono con frastuono, uno ha la possibilità di lavorare standosene appartati. Da ragazzo ero soggiogato dalla timidezza, cosa che a Roma non mi ha giovato affatto nei primi anni. La nascita del gruppo si spiega perché è stata una cosa spontanea, un evento fortuito. Negli anni Ottanta, quando io mi stabilisco qui, ritornano altri artisti, come Candiano e Polizzi, che avevano studiato a Venezia. C'era già Franco Sarnari. S'è formato così, non c'era un manifesto in cui riconoscersi, una comunione di intenti. Poi, un giorno, Guttuso, intervistato, parlando del deserto della pittura italiana negli anni Ottanta, fece riferimento a un gruppo d'artisti che operava nella periferia della Sicilia. Ecco come nacque». Lei ha avuto la fortuna di fare diversi incontri importanti, decisivi: con Moravia e la Sontag a Roma, e poi coi grandi scrittori siciliani. A chi si sente più legato? «A Roma ho conosciuto grandi artisti, pittori, scrittori, saggisti, tra cui Sciascia, che poi avrei rivisto e frequentato in Sicilia; qui ho fatto amicizia con Gesualdo Bufalino. E tutti quelli che hanno scritto sulle mie opere, hanno detto sempre qualcosa che mi ha aiutato a capire meglio me stesso, illuminando certe mie zone d'ombra. Ognuno aggiungendo un piccolo o grande tassello». C'è stato un momento in cui ha percepito che nel suo lavoro stava cambiano qualcosa, che si apprestavaa fare il giro di boa: insomma, che la fama le stava piombando addosso? «Neanche oggi, che ho un'età avanzata, ho questa coscienza. Non l'ho mai avuta. Ho sempre lasciato che le cose accadessero». Però, un giorno, è vero che venne a trovarla, in elicottero, Marcello Pera, allora presidente del Senato, a commissionarle un quadro, come facevano i grandi mecenati un tempo? «È vero: a fare da tramite, allora, fu il mio amico Ottaviano Del Turco, ai tempi senatore, il quale promosse l'idea che dovessi fare qualcosa per il Senato. Organizzarono questo viaggio, naturalmente molto gratificante. Certo, il riconoscimento degli altri mi appaga non poco». Se dovesse fare oggi la scelta di tornare in Sicilia, avrebbe qualche esitazione? «Nel mio rapporto con l'Isola rimane qualcosa di viscerale, a tal punto che fare una mostra a Modica o a Scicli mi eccita di più di quelle che vengono organizzate all'estero. Certo, m'ha fatto piacere esporrea New York,a Parigi, ma qui mi diverto di più, ecco tutto. Detto questo, non posso negare di avere avuto momenti di grande malessere. Sono passati più di trent'anni da quando arrivai, e ne ho viste di cose che andavano sempre peggio: l'abusivismo, ad esempio, la sporcizia, sempre più invasiva e devastante. Ho pensato qualche volta, seriamente, di prendere armi e bagagli e partire». Ma non l'ha fatto... «No, qui sono con Sonia Alvarez, c'è stato un rapporto di amore che ha contribuito a non farmi andare via. Del resto, non ho mai pensato di andare a vivere, che le posso dire, a Parigi: lì non avrei saputo cosa dipingere. Alla fine, ha vinto la pittura».
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