Cancelliamo il passato. Intervista a Richard Meier Domizia Carafoli il Giornale 29/10/2004
Loro, gli architetti, a sentirli sembrano tutti poeti. E innocenti. Richard Meier, per esempio. Occhi acuti dietro gii occhiali in bilico sul naso aquilino, capelli candidi, gentilezza di studioso. È di passaggio a Milano per presentare il suo progetto Jesolo Lido Village, che come nome suona un po' «consigli per gli acquisti», ma non è colpa sua. E poi lui pronuncia «Gesolo» e questo rende il tutto molto più simpatico. Architetto del candore e della luce (i suoi edifici sono tutti rigorosamente bianchi, gli spazi ampi e la luce vi gioca un ruolo primario), il progettista dei più celebri musei d'Europa e d'America - da Francoforte a Barcellona fino al monumentale e criticato Museo Getty di Los Angeles - si entusiasma come un ragazzo (o un poeta appunto) al ricordo della sua prima visita a Jesolo. «Sono rimasto stupito dalla profondità e dalla bellezza della spiaggia -dice - non abbiamo spiagge simili noi americani, nemmeno in California. E poi la luce sul mare. Sì, è un luogo bellissimo». Il villaggio, a un passo dalla spiaggia, è fatto di candidi e bassi edifici squadrati che sembrano un po' l'opera di un Terragni, redivivo andato in visita a Malibù. Di fronte al mare si ergono tre torri luccicanti, grattacieli in formato ridotto. Tutto preso dal suo entusiasmo, il grande architetto newyorchese non deve avere avuto molto tempo per guardarsi intorno e vedere lo scempio pluriennale che un'edilizia di rapina ha fatto delle coste adriatiche di Jesolo. Eppure il problema delle coste devastate da un infinito campionario del cattivo gusto, le periferie invivibili, le città congestionate, in una parola l'architettura brutta, è oggi una bruciante accusa rivolta proprio agli architetti. Da Gropius in avanti, gli architetti hanno progettato i quartieri nuovi. Ma almeno dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, le città non hanno fatto che peggiorare. Anche quando a firmare i nuovi edifici erano nomi illustri. Parlando dell'Italia, penso al Corviale di Mario Fiorentino, tanto per fare un esempio, che oggi si vorrebbe addirittura demolire. Come mai premesse intellettuali tanto ambiziose e risultati cosi deludenti? «Perché c'era fretta, tanta fretta. La gente aveva bisogno di case, fame di case e non guardava per il sottile in fatto di estetica. E poi molti progetti sono rimasti incompiuti e gli ambienti si sono degradati, imbruttiti. Oggi c'è una nuova consapevolezza e una diversa esigenza estetica. E non c'è più l'urgenza drammatica del costruire. La gente si interessa, discute, polemizza. Si costruisce meglio e si restaura meglio. Soprattutto in Italia dove ho notato un interesse fortissimo per l'architettura. Un atteggiamento critico molto consapevole. Pensi alle polemiche sul restauro della Scala, per non parlare degli attacchi al mio progetto per il museo dell'Ara Pacis a Roma». Già, è stato accusato di sostituire «un'americanata» al sobrio contenitore di Ballio Morpurgo degli anni Trenta. «Io dico: aspettate di vedere il progetto compiuto e realizzato, le proporzioni e le relazioni fra gli spazi. È questo il nocciolo di ogni architettura». Il fatto è che le città italiane antiche presentano un tessuto urbano molto delicato e gli inserimenti diventano rischiosi. Pensi alla nuova uscita degli Uffizi progettata a Firenze da Arata Isozaki. «Isozaki è un mio buon amico (la prudenza non è mai troppa, ndr). Forse sono state le proporzioni a suscitare i maggiori dissensi. Non è detto che le architetture contemporanee debbano essere malate di gigantismo. Le persone che vengono a visitare la Chiesa del Millennio che ho progettato per il quartiere romano di Tor Tre Teste si stupiscono di trovarla "piccola". E in effetti lo è». Quindi anche lei ritiene che le nuove architetture possano essere discrete. A molti grandi maestri, da Libeskind a Gehry, viene rimproverato l'opposto, la tendenza a stupire con edifici che diventano sfoggio di virtuosismo, effetti speciali, architetture choc insomma. «Non c'è bisogno di choccare. Gli edifici, quale che sia la loro destinazione, vanno pensati per essere vissuti e per durare nel tempo, come funzione e come valore estetico». Talvolta la tentazione di strafare può venire anche dalla disponibilità odierna di tecnologie straordinariamente innovative. Non è che l'ingegneria sta battendo l'architettura? «La cupola del Brunelleschi a Firenze è un capolavoro di ingegneria. Ed è allo stesso tempo un capolavoro di architettura». Dureranno quanto il fiorentino i Brunelleschi di oggi? «Devono. L'architetto deve avere la mente rivolta al futuro. E naturalmente rispettare il passato. In questo senso l'Italia è un'ottima palestra. Lo pensavo quando da giovane, studente all'American Academy di Roma, passeggiavo per le vie di quella incredibile città, fra le sue incredibili prospettive. Roma mi ha insegnato la continuità con l'antico». Sì, ma l'Ara Pacis... «Rispettare il passato non significa rimanerne prigionieri. Altrimenti si ha una città congelata, a frozen city. Sono assolutamente contrario alla musealizzazione delle città antiche. Pensi che l'Ara Pacis è il primo edificio moderno che viene costruito nel centro antico di Roma negli ultimi cinquant'anni. L'architettura non è una lingua morta, deve continuare ad esprimersi». Ha una ricetta, il grande Richard Meier, per una città del futuro che non sia brutta come quelle costruite fino ad ora? «Mi dispiace, non ho ricette: ogni luogo è diverso dall'altro. Ci sono città "alte" e città "basse". Importante è individuarne lo stile, lo spirito». |