Ferramonti: basta con gli scempi 05-06-2012 Anna Longo
Lo sconcerto, l’indignazione e le rimostranze con cui hanno reagito alcuni studiosi italiani in relazione all’entrata in funzione del “museo virtuale” di Ferramonti (che, da qualche settimana, è visitabile on-line), mi spingono a rendere testimonianza di un’esperienza diretta su tale argomento, che ho vissuto poco più di un anno fa, e che, anche a me, aveva provocato sconcerto ed altri sentimenti analoghi a quelli di cui sopra.
E’ davvero uno strano destino quello del sito geografico di Ferramonti, il grande campo per ebrei che operò in Calabria durante il fascismo, dissepolto dall’oblio dallo storico Carlo Spartaco Capogreco, che ne ha ricostruito le vicende nel saggio intitolato, appunto, Ferramonti, pubblicato da La Giuntina di Firenze nel 1987. Nel corso degli anni Novanta, Ferramonti è divenuto poi popolare anche grazie ad una fiction co-prodotta dalla Rai (18.000 giorni fa) e, non da ultimo, al “buon uso” della memoria perseguito dalla Fondazione Ferramonti promossa dallo stesso Capogreco (nata nel 1988) in collaborazione col Comune di Tarsia. Un’istituzione che, nel 1999, riuscì ad ottenere un risultato estremamente significativo per il luogo: l’emanazione, da parte del Ministero per i Beni Culturali, di un decreto di vincolo che dichiara l’area di Ferramonti “luogo di interesse storico-culturale” .
Ma da alcuni anni, nonostante queste buone premesse, Ferramonti è tutt’altro che un “luogo della memoria”. Sembra, piuttosto, che vi si perseguano scientemente oblio e smemoratezza, per usare i concetti che ha espresso in un suo intenso scritto la storica Maria Bacchi, dopo avere visitato il sito. Questa singolare metamorfosi è apparsa con forza ai miei occhi quando, poco più di un anno fa, ho deciso di visitare quel posto, che è gestito da una cosiddetta “Fondazione Museo della memoria Ferramonti di Tarsia”, entità che – e questo mi appare di eccezionale gravità – miseramente scimmiotta il nome della Fondazione creata da prof. Capogreco. Nel gennaio 2011, in occasione della Giornata della Memoria, ero stata invitata dall’Associazione fra ex Consiglieri regionali della Calabria a presentare il volume Ferramonti dal Sud Europa per non dimenticare un campo del duce (Editore Laruffa), che racchiude le conclusioni di un Progetto europeo, voluto dalla stessa Associazione, sulla storia e la riscoperta della vicenda e del luogo di Ferramonti (il volume si può ricevere compilando uno specifico coupon all'indirizzo: http://www.progettoferramonti.it/documenti-progetto-ferramonti/108-pubblicazione). Per approfondire la mia preparazione al riguardo ho ritenuto opportuno recarmi di persona in visita a quel che resta del campo, e lì ho constatato con sconcerto lo scempio culturale che vi si consuma. Il cosiddetto Museo Internazionale della Memoria ha infatti proceduto a quelle che sono state definite eufemisticamente “ristrutturazioni” delle baracche. In realtà, come del resto si evidenzia proprio dalle foto pubblicate nella pagina Facebook di MuViF, gli edifici, che nella loro precarietà restavano l’ultimo struggente documento fisico degli anni dell’internamento, sono stati completamente rifatti. Coloro che a parole si impegnano a “conservare concretamente l’identità e la memoria storica” l’hanno invece disprezzata e cancellata. Le attuali costruzioni, dove sono collocati alcuni materiali e fotografie, e dove si può assistere a un video (in verità ben poco professionale e dai contenuti discutibili) sono ormai assimilabili ad anonimi e algidi bungalow in stile agriturismo.
E’ per questo che, in realtà, non mi sorprendono ora più di tanto i post inoltrati sul profilo Facebook del Mu.Vi.F. da Anna Pizzuti e Mario Rende (due importanti studiosi di Ferramonti). Rende e Pizzuti denunciano, tra le altre cose, dei fatti che appaiono gravissimi (sia sotto il profilo penale che su quello culturale): la falsificazione di alcune fotografie esposte e le ruberie del lavoro altrui. Non mi sorprendono perché, evidentemente, il cosiddetto “museo virtuale” (con tutti i suoi guasti) non poteva non essere che una riproposizione di quello “reale”. Aggiungo solo una considerazione ai commenti finora presenti sul Profilo Facebook del MuViF. E’, secondo me, quantomeno singolare il fatto che la gestione di questo sito non si assuma alcuna responsabilità rispetto ai contenuti, attribuendola completamente al cosiddetto “comitato scientifico” che, dal canto suo, non risponde affatto agli utenti. In particolare, noto che dopo la replica dell’8 maggio scorso di Francesca Alonzo (responsabile tecnico) al prof. Mario Rende, in cui appunto si annunciava che le sacrosante richieste del professore sarebbero state “girate” ai veri responsabili dei contenuti, nessuna presa di posizione “ufficiale” sia giunta a distanza ormai di settimane.... Non mi sorprendo, dicevo, di tutto ciò, per le ragioni che ho spiegato. Non mi sorprendo, ma tuttavia mi chiedo sinceramente, da persona che lavora nel mondo della cultura e della comunicazione con una particolare attenzione al valore del nostro patrimonio storico e monumentale, perché il Comune di Tarsia non ponga fine a questo scempio culturale e di immagine che lo riguarda così da vicino.
Anna Longo Vicecaporedattore Cultura Giornale Radio Rai
21 maggio 2012
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