Tutela, fruibilità e valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale italiano: un’utopia da “anima bella” o l’unico modo razionale rimasto per sopravvivere? 07-10-2014 Luca Bellincioni
In questo periodo di crisi economica è tornato alla ribalta prepotentemente il tema della valorizzazione turistica del nostro patrimonio ambientale e culturale. Con la caduta ormai irreversibile del settore industriale in Italia, essa è ormai da molti vista come uno strumento fondamentale non solo per uscire dalla crisi ma anche per uno sviluppo sano e duraturo. Ogni cittadino di buon senso pare oggi favorevole ad una seria valorizzazione turistica delle nostre bellezze storiche e paesaggistiche, uniche al mondo e associate da sempre al “made in Italy”. Questo incremento di sensibilità da parte della popolazione è testimoniato anche dal successo viepiù maggiore che incontrano le iniziative volte alla fruizione dei luoghi d’arte e natura del nostro Paese, come ad esempio le “Giornate del FAI”, ecc… Un rinnovato interesse che è di certo conseguente al maggiore livello di scolarizzazione e acculturamento della cittadinanza, nonché alla necessità, percepita da tutti, di “inventarsi qualcosa” per creare nuovi posti di lavoro. Ed effettivamente se pensiamo all’enorme affluenza turistica, spesso per lo più straniera, di siti o territori che siano già celebri oppure meno famosi ma (purtroppo tuttora pochi) ben tutelati, valorizzati e promossi, ci viene da riflettere su quante “occasioni mancate” abbiamo sotto gli occhi, quanti luoghi cioè attualmente abbandonati o addirittura degradati potrebbero, se recuperati e resi fruibili, attirare visitatori e dar vita quindi ad opportunità lavorative. Fra l’altro si parla molto di “fughe di cervelli” all’estero ma non ci si sofferma mai sul fatto che quei “cervelli” sono per la stragrande maggioranza laureati in materie tecniche o scientifiche, mentre i laureati in materie umanistiche - e sono tanti – rimangono fuori da qualsiasi ipotesi lavorativa. Così in uno dei Paesi con il più grande concentrato di storia, arte, paesaggio e beni dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco non si investe nulla nei laureati in archeologia, storia, storia dell’arte, conservazione dei beni culturali, ecc… Un suicidio più che uno scandalo. Tutta gente – spesso giovane e giovanissima – che proprio dalla gestione di beni attualmente “chiusi” o “sotto-potenziati” potrebbe trovare uno sbocco lavorativo: anzi ne avrebbe tutto il diritto. Eppure tali considerazioni così ragionevoli non sono scontate. Buona parte della politica rimane sorda al tema della valorizzazione turistica del patrimonio paesaggistico e culturale: non lo vede come una priorità e se ci lavora su lo fa con incompetenza. Molti politici ancora insistono con l’ormai insopportabile e demenziale tiritera delle “grandi opere”, e l’Expo di Milano, vero fallimento nazionale in ogni senso, ne è uno degli esempi più eclatanti: ma la lista potrebbe essere molto più lunga, dal Mose, alla Tav, all’Autostrada Tirrenica, alla Metro C di Roma, ecc… Per non dire del fatto che nove volte su dieci dietro le grandi opere c’è tutto il peggio della politichetta del malaffare. Quella che ci ha portato a questo punto e che non vuol mollare la presa… sul nostro territorio e sulle nostre stesse vite. Del resto oggi più che mai “valorizzare” significa in primis “tutelare” e “rendere fruibile”. “Tutela” e “fruizione” sono parole magiche che, se messe in pratica, tengono di sicuro lontani mafiosi e politici corrotti: meglio dell’aglio con i vampiri. E certo non possiamo più considerare come ”valorizzazione” quel modo di intervenire sul territorio che fu proprio degli anni del boom economico e dei decenni successivi, quando “valorizzazione”, appunto, significava alterazione, se non distruzione, dei luoghi. Tutela e fruizione contrastano in modo stridente con cementificazione e privatizzazione selvagge dei luoghi, da quella “storica” delle coste fino a quella più recente che in molte zone consuma pianure e risale colline e montagne. Sono inoltre antidoto al degrado, ambientale e sociale, e garanzia di qualità della vita. E, ultimo ma non ultimo, come dicevamo prima, sono molla per uno sviluppo diverso, più ampio, più democratico, che si traduce in progresso duraturo di tutti e per tutti. Salvaguardare i territori e renderli fruibili significa far divenire i cittadini più consapevoli delle loro valenze, più legati a tutto ciò che li circonda, addirittura ricreare identità locali dove le identità non esistono più. Ricreare luoghi consapevolmente amati e vissuti intorno ai non-luoghi dove per lo più la popolazione oggi vive. Guardiamo il successo – almeno a livello di fruizione, non diciamo di gestione - delle aree protette di Roma: i cittadini hanno bisogno di verde, di natura, di contatto con il territorio, di vita all’aria aperta. Insomma: di qualità della vita. Dare spazi verdi alla popolazione significa educarla al rispetto per l’ambiente. Proporre, come le nostre amministrazioni troppo spesso vorrebbero, esclusivamente palazzi e centri commerciali, distruggere o mantenere non fruibile (se non degradato) il territorio “sopravvissuto” ad essi è un modo folle di fare politica. I suoi effetti li vediamo nella qualità della vita spesso scadente che insiste in molti quartieri delle nostre città, dal Nord al Centro al Sud senza troppe distinzioni. Ricapitolando, investire sui centri storici, sul paesaggio e sul patrimonio artistico, tutelare e rendere fruibile il territorio vuol dire essenzialmente due cose: da un lato migliorare la qualità della vita dei cittadini residenti, dall’altro sviluppare turismo e lavoro “sani”, “di qualità”, e soprattutto duraturi. Vuol dire anche attrarre investimenti, endogeni o esogeni, perché senza questi ultimi non si restaurano i centri storici né tanto meno il paesaggio culturale con le sue coltivazioni tipiche e le sue architetture rurali. Ovviamente lo Stato deve fare la sua parte, soprattutto per quanto riguarda i siti archeologici, che devono rimanere sotto la sua diretta supervisione, e sui quali occorre impegnare risorse, e sotto l’aspetto della salvaguardia del paesaggio, conditio sine qua non per lo sviluppo turistico del futuro. Che i turisti da tutto il globo verranno sempre più a visitare i nostri luoghi d’eccellenza e non i nostri luoghi del degrado è, crediamo, chiaro a tutti. Di conseguenza, ed è il punto cruciale, è urgente la necessità di una legge sul suolo, che salvaguardi i territori agricoli e naturali rimasti integri e che releghi le nuove costruzioni alla riqualificazione del già edificato. E ciò – senza volersi soffermare troppo su un’altra spinosa questione – dovrebbe valere sia per l’edilizia sia per il settore energetico, il quale, favorendo di una situazione di deregulation per non dire di anarchia, è andata a consumare e deturpare territori fino a pochissimi anni fa intatti: i danni prodotti da eolico industriale e fotovoltaico a terra sono sotto gli occhi di tutti. Uno strumento di tutela-valorizzazione nuovo potrebbe essere quello dei cosiddetti “parchi agricoli”, da affiancare alle tradizionali aree protette (parchi, riserve naturali, oasi, ecc…). Gli ultimi anni, così caratterizzati da una speculazione edilizia ed energetica senza più alcuna decenza, hanno confermato che è il “paesaggio agricolo tradizionale” il malato più grave all’interno del nostro patrimonio ambientale e culturale: sta molto peggio della fauna e della flora, dei siti archeologici, dei musei, dei palazzi, delle ville e dei castelli. Eppure il paesaggio agricolo italiano tradizionale, nelle sue mille sfaccettature su e giù per lo Stivale, è da considerare come una vera e propria “opera d’arte” a sé stante. Certe volte lo ritroviamo ancora quasi uguale a come appare sugli sfondi dei quadri e degli affreschi dal Medioevo all’Ottocento. E almeno il 50% delle volte che lo ritroviamo in così belle condizioni purtroppo esso non soltanto non ricade all’interno di aree protette, ma addirittura nemmeno nei piani paesaggistici regionali, redatti troppe volte da persone che non si recano affatto sul territorio per costatarne le reali e attuali condizioni! Non di meno, questo paesaggio è produttore di cibi a km 0, a filiera corta, quasi sempre di ottima qualità: tutte cose – e ritorniamo al discorso di prima – che vengono ormai ricercate sia dai residenti sia dai turisti. Un territorio che dovrebbe assolutamente beneficiare di questo nuovo modello di salvaguardia-valorizzazione potrebbe essere proprio l’Agro Romano, che per la sua spiccata valenza storica, paesaggistica, culturale e addirittura letterario-artistica potrebbe ambire all’istituzione di un “parco agricolo, archeologico e culturale”, con ricadute positive immense sia sulla qualità della vita della popolazione della Capitale e del suo hinterland sia sullo sviluppo turistico. La creazione di sentieri escursionistici, piste ciclabili, ippovie, fattorie didattiche, e allo stesso tempo l’apertura di siti archeologici, ville, castelli e casali all’interno di un grande Parco Nazionale Agricolo, Archeologico e Culturale della Campagna Romana condurrebbe appunto a quella fruibilità del territorio che in automatico porta alla sua tutela. Utopie? Forse. Ma la fruizione del paesaggio e dei beni storici rappresenta la loro più efficace garanzia di tutela. E che territori come l’Agro Romano costituiscano da decenni un’occasione sprecata è una triste realtà. Altre possibilità di sviluppo economico non si intravedono. Iniziare a “sfruttare” – nel senso pragmatico e non cinico del termine – quel che abbiamo sotto il naso, e che le nostre amministrazioni continuano a gettar via in barba a qualsiasi logica economica e in modo del tutto antidemocratico, sarebbe il primo passo per far qualcosa di concreto e smetterla di lamentarci.
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