Turismo e integrità dei siti: una contraddizione apparente 26-04-2006 Michelangelo Jacobucci
In ogni Paese del globo annoverare una delle proprie bellezze artistiche o naturali nella lista dei siti iscritti sotto l’egida dell’Unesco è giustamente titolo di merito e motivo di orgoglio. Stiamo parlando infatti nientemeno che di un catalogo delle odierne meraviglie del mondo. È quindi più che naturale che ci si tenga a collocare in bella vista sui cartelli stradali o nelle guide turistiche, accanto a questa o quella località o accanto a questo o quel monumento il nobilitante annuncio: “Sito iscritto nella lista Unesco”. Tuttavia non bisogna perdere mai di vista quanto va mettendo in luce a più riprese questa rivista (vedi da ultimo l’intervista al Presidente della Commissione Nazionale Unesco Giovanni Puglisi nel numero di ottobre–dicembre 2005), cioè che la suddetta lista non dovrebbe ridursi ad una sorta di classifi ca da concorso di bellezza ma deve inserirsi decisamente nell’azione che la massima Organizzazione Mondiale per la Cultura va svolgendo sin dalla sua nascita per la protezione del patrimonio mondiale naturale e culturale. A questa azione, della massima importanza, l’Organizzazione ha sempre partecipato col massimo impegno e tutti gli enti ad essa collegati – in prima linea l’Associazione città italiane del patrimonio mondiale UNESCO – martellano sul tema, per cui non è il caso di dedicarvi qui molto spazio, anche se non chiederei di meglio, avendo personalmente dedicato a tale sacrosanta causa molte energie quand’ero membro del Consiglio Esecutivo dell’Unesco agli inizi degli anni 90. Mi limiterò a ricordare che in quegli anni l’Italia avviò una serie di iniziative volte a di riformare in senso più incisivo la nota Convenzione del 1972 per la protezione del patrimonio culturale e naturale. Iniziative naufragate anche a causa dell’opposizione degli americani, operanti dietro le quinte dell’Organizzazione e da sempre restii ad intese multilaterali che possano in qualche modo imporre loro dal di fuori, ad opera delle comunità internazionale, qualche obbligo e restrizione di carattere interno. Per noi italiani invece non sembra esservi dubbio che l’iscrizione di un determinato sito nella lista UNESCO implica un onore ma anche un onere: nel momento in cui un sito, sia esso un paesaggio o un monumento, dopo un rigoroso esame tecnico, viene uffi cialmente dichiarato di interesse mondiale, esso dovrebbe cessare di essere unicamente patrimonio del Paese ove esso è situato, ed essere invece riconosciuto come un bene di tutta l’umanità. La comunità mondiale, per il tramite delle Istituzioni fondate a tale scopo, cooopera allora col Governo direttamente interessato nella valorizzazione e protezione del sito, affi ancandolo all’occorrenza con appropriate misure e assumendosi quindi parte della responsabilità. Questo principio è particolarmente valido allorché si verificano azioni belliche o catastrofi naturali o quando un Paese ha tali difficoltà economiche da non poter provvedere adeguatamente a certe azioni di manutenzione o restauro. Ma dovrebbe applicarsi anche nel caso (e casi del genere ahimé sono tanti) in cui un Paese fa scempio di qualche rara bellezza naturale o culturale sfruttandola in maniera poco appropriata a fini di lucro, giungendo a volte addirittura a privarla dei suoi caratteri originari con nuove costruzioni o modifiche arbitrarie. Il problema è assai complesso. Qui vorrei soffermarmi su un solo punto di grande importanza: a distruggere un paesaggio o un monumento storico non agiscono solo la speculazione edilizia o il malinteso zelo di politici o architetti ambiziosi, che con disinvoltura inseriscono le loro moderne concezioni del bello in strutture vecchie di secoli, abbattendo, aggiungendo, disfacendo e ricombinando ciò che una volta modificato non si potrà mai più recuperare (pensiamo, tanto per fare un esempio tra i tanti, agli interi quartieri medievali rasi al suolo, purtroppo con le migliori intenzioni, a Roma e a Parigi). Uno dei massimi fattori di pericolo e logoramento viene anche, inaspettatamente, da un settore generalmente considerato sinonimo di attività pacifica, educativa e proficua per tutti: il turismo. Sì, proprio il turismo che tutti noi pratichiamo e consideriamo una conquista della nostra civiltà del benessere. Come può il turismo essere un pericolo per il patrimonio culturale e naturale? Ebbene, lo è e come! E non mi riferisco ai suoi aspetti aberranti come il vandalismo, il furto di reperti o la semplice maleducazione nel lasciare rifiuti o provocare incendi , ma al turismo puro e semplice, che oggi si definisce “di massa”. Un tempo l’afflusso di folle imponenti intorno ad un monumento si verificava soprattutto in occasione di pellegrinaggi religiosi o di eventi agonistici. Oggi, lo sappiamo, viaggiare è relativamente facile e intorno e in qualsiasi località dove vi è qualcosa che meriti di essere ammirato vediamo assembramenti imponenti, spesso organizzati in schiere compatte, con tanto di capi manipolo e bandierine, che fino a non molto tempo fa era possibile vedere solo in occasione di campagne militari o di festeggiamenti di portata epocale. Inutile dire che quali che siano le misure organizzative volte ad impedire o limitare guasti, la stessa presenza nello stesso luogo per periodi prolungati di grandi folle è fonte di danni spesso irreparabili. Quante mirabili statue di santi, in solido bronzo o marmo, sono state levigate da innumerevoli dita di fedeli adoranti? Un caso emblematico è quello delle multimillenarie pitture delle tombe egizie, danneggiate addirittura dal fiato stesso delle miriadi di turisti che le visitano ininterrottamente tutto l’anno. Che fare? Le cose belle sono fatte per essere ammirate ed inoltre il turismo è una fonte irrinunciabile di proventi, che in molti casi contribuiscono in maniera determinante proprio alla manutenzione dei siti. Si configura una quasi insanabile contraddizione tra due opposte esigenze. Da un lato l’esigenza di pubblicizzare e valorizzare al massimo il sito, sfruttando la ricchezza che esso rappresenta non solo sul piano economico ma anche su quello spirituale, quale prova tangibile della genialità dell’uomo, a qualsiasi regione del mondo egli appartenga (e non dimentichiamo che anche i bei paesaggi portano impressa la mano dell’uomo). Quindi anche veicolo di interscambio e fratellanza. Dall’altro lato però l’esigenza di proteggere il più possibile il sito dai danni che provengono, talvolta insensibilmente ma non meno pervicacemente, dall’inevitabile attrito con milioni di esseri umani, molti dei quali non troppo riguardosi. E, come si è detto, si ha un bel restaurare. Le cose veramente belle sono le più delicate e una volta deturpate è difficile che tornino come prima. Questa contraddizione si riflette non di rado sul piano operativo, in un perpetuo braccio di ferro tra le Autorità preposte alla promozione turistica, per molte delle quali non esistono tabù e timori reverenziali, e le Autorità preposte alla cura dei beni culturali, talvolta talmente gelose dei tesori da essi amministrati che se dipendesse da loro li terrebbero perpetuamente sotto chiave, mostrandoli solo con permesso speciale. Mi auguro che politici ed esperti non tralascino alcuno sforzo per cercare la quadratura del cerchio atta, se non a risolvere, quanto meno ad attenuare un problema di tale portata. Mi permetto intanto un modesto suggerimento. Un avvio alla piena presa di coscienza del problema potrebbe provenire proprio dall’interno stesso della cerchia più privilegiata ed esclusiva delle bellezze turistiche, la cerchia di “elite” dei siti UNESCO, che sono ad un tempo quelli degni per antonomasia della più alta e più gelosa protezione e le mete più ambite dai visitatori. Onde organizzare la gestione dei siti in questione in maniera da conciliare il più possibile le opposte esigenze sopra indicate, non sembra poi tanto utopico immaginare che i Paesi detentori delle grandi “meraviglie del mondo” accrescano la collaborazione non solo con i dirigenti UNESCO ma anche tra di loro con l’obiettivo di imprimere all’ attività turistica intorno ai siti un carattere sempre più marcatamente culturale ed elitario. Si potrebbe cominciare con l’allargare all’ambito internazionale quelle iniziative di itinerari turisticoculturali e di gemellaggio tra siti che già hanno luogo nell’ambito nazionale in vari Paesi, e in Italia con particolare impegno. La stipula di intese internazionali di gemellaggio e l’organizzazione di itinerari turistico-culturali tra Stati e Regioni che condividono alcune radici o tratti culturali – e non importa se si trovano ai lati opposti della terra – darebbe non solo immediati vantaggi pratici ai diretti interessati ma avrebbe anche un benefico effetto moltiplicatore in termini di conoscenza e valorizzazione dei monumenti o dei paesaggi in questione, facendo così di essi, in maniera ancora più evidente, degli autentici ponti tra culture. Gli esempi di affinità tra siti pur separati da immense distanze sono tanti: i gioielli dell‘architettura barocca della valle di Noto in Sicilia e quelli della regione brasiliana di Ouro Preto, le vestigia romane che si snodano in una mirabile catena dal Nord e Centro Europa alle coste africane e mediorientali del Mediterraneo e via dicendo. Persino le più remote radici dell’umanità potrebbero essere oggetto di uno straordinario percorso, che da un continente all’altro - dalle pitture rupestri della Val Camonica alla grotta di Zhoukoudian dove fu rinvenuto “l’uomo di Pechino”, dai reperti e graffiti di Norvegia, Finlandia, Francia, Portogallo a quelli di India e Indonesia, arrivando fino al Messico – si risolve nella più vivida illustrazione del comune cammino ascendente dell’Uomo verso la civiltà. Il cartello “Sito Unesco” non sarebbe allora soltanto una forma di pubblicità ad alto livello a sfondo nazionalista se non addirittura campanilista, non starebbe solo a segnalare l’ennesimo bel posto da fotografare in fretta, ma segnerebbe una tappa significativa, da affrontare con spirito particolare, in un programma educativo di portata mondiale inteso a far riflettere sulle vette che l’ingegno umano è stato capace di raggiungere nel corso dei secoli in qualsiasi latitudine. Non so sino a che punto da noi in Italia un’idea come quella che ho appena avanzata sia già allo studio o magari già in corso di attuazione e se alcuni dei comuni attivi nell’allestimento di itinerari turistico-culturali a livello interregionale stiano pensando di estendere le loro iniziative sul piano internazionale. Mi auguro comunque che prima o poi si arrivi alla creazione di una vera e propria “rete di solidarietà” tra i custodi delle meraviglie del mondo, in modo che tali meraviglie possano esibire al massimo la loro qualità più luminosa, quella di conquiste dello spirito umano al di là di ogni frontiera di razza, di credo o di etnia. Acquisterebbe così piena priorità il rispetto reciproco degli artefatti e dei simboli quali altrettante pietre miliari lungo il cammino della civiltà, alimentando la consapevolezza che ogni ferita e offesa a questi artefatti e simboli, dovunque essi siano situati, ci riguarda sempre tutti da vicino e offende e ferisce più di ogni altra cosa il senso più profondo e nobile dell’essere Uomo.
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