Intervento alla Consulta universitaria per l'archeologia del mondo classico (12 febbraio 2016) 11-02-2016 Daniele Manacorda
Da uno come me che da quasi venti anni scrive in favore di una tutela contestuale e quindi, delle Soprintendenze Uniche, non potete aspettarvi altro che una normale soddisfazione nel vederle diventare finalmente legge dello Stato. Dopo l’articolo di Pavolini su Ostraka, ripresi infatti quelle argomentazioni negli atti di un Convegno su “L’Università nel sistema della tutela”, pubblicati negli Annali dell’Associazione Bianchi Bandinelli (1999), che organizzammo allora con l’indimenticato Michele Cordaro. L’ho ripreso altre volte, ma non è questo che può interessare. Mi sono sempre domandato, piuttosto, come mai – a fronte di tante opposizioni verbali – nessuno avesse mai preso la penna in mano in venti anni per confutare per iscritto, in termini culturali, le argomentazioni a favore con altrettante argomentazioni ‘contro’. Vi risparmio le motivazioni della mia posizione, che negli anni si è fatta semmai più radicale, di fronte al progressivo sfilacciamento dell’azione di tutela e alla incapacità manifesta di gestire la filiera ricerca/tutela/valorizzazione/gestione, di cui ciascuno di noi è stato testimone in questi decenni, vivendo sulla propria pelle le difficoltà crescenti di un rapporto sano e corale tra mondo della ricerca e mondo della tutela, pieno di qualità e potenzialità, eppure dal volto inefficiente o abulico o arrogante, come da sempre la Pubblica Amministrazione ci ha abituati a conoscerla, sì che i migliori fra i nostri colleghi, ampiamente presenti in quelle file, sono stati e sono tante volte oggetto di una nostra insofferente solidarietà. Per me la nascita delle Soprintendenze Uniche rappresenta un grande successo proprio dell’archeologia, della sua visione contestuale e multidisciplinare, del suo approccio globale al territorio, senza depotenziare e tanto meno abbandonare gli specialismi, ma facendoli dialogare fra loro perché siano quindi tutti più utili e più forti (ho sempre ritenuto che ad un problema archeologico non corrisponda mai una soluzione esclusivamente archeologica). Con Soprintendenze Uniche, ben organizzate in sette aree funzionali (tra cui ovviamente quella archeologica), cioè con una struttura che io leggo di natura dipartimentale ma non blindata, avremo forse strategie di intervento pubblico più omogenee e meno conflittuali, avremo maggior coordinamento, lasciato oggi alla buona volontà dei singoli, avremo, avranno i cittadini risposte meno divergenti e in tempi possibilmente meno biblici. Di fronte ai ‘no senza se e senza ma’ e agli ‘al lupo al lupo’ ho sempre cercato di vedere il bicchiere mezzo pieno, e non vedo perché non dovrei farlo anche ora. Ora che anche associazioni tradizionalmente non inclini al cambiamento, come Italia Nostra, si dicono non pregiudizialmente contrarie alla riforma se questa saprà garantire una nuova visione integrata della tutela, e della valorizzazione, e il rispetto delle diverse professionalità. L’archeologia non solo non morrà, come ululano le solite Cassandre, ma sarà ovviamente presente e in prima fila in tutte e 39 le nuove soprintendenze, per non parlare dei parchi archeologici, su cui tanto abbiamo lavorato negli anni passati, grazie al grandissimo impegno di Francesca Ghedini. Più che lamentarsi dell’infausto destino che attende i nostri colleghi archeologi alle dipendenze dei paventati soprintendenti architetti, si pensi al destino radioso che attende architetti, storici dell’arte, demoetnoantropologi (se esistessero) quando saranno coordinati da un archeologo, che porterà in quelle stanze la visione contestuale, globale e multidisciplinare della nostra disciplina. Si tratta sempre di come si vede il bicchiere. Criticità della riforma Ma lasciamo stare. Guardiamo invece le criticità, che non mancano, nelle forme e nei contenuti. Una critica riguarda la mancanza di un adeguato dibattito e anche di una migliore spiegazione al paese dei motivi della riforma; l’altra il percorso scelto per avviarla (l’emendamento alla legge di stabilità). E’ ovvio che non mi ritrovo in nessuna delle due scelte. Provo a mettermi nei panni della politica, e magari mi dico che la politica o ‘fa’ (magari male) o sta ferma (e fa peggio) e mi dico anche che, a fronte di molte prese di posizione a favore di questo passo negli ultimi due anni, scritte e dibattute in varie sedi, e pubblicate, non ne conosco di altrettali e altrettante di segno contrario che abbiano alzato il livello delle proposte culturalmente valide e abbassato il coro delle lamentazioni, tanto care a chi ha il monopolio di certa carta stampata. Le chiacchiere alla macchinetta del caffè o gli sfoghi sul web lasciano il tempo che trovano, il confronto culturale e politico si fa mettendoci la faccia e avanzando argomentate proposte alternative: magari per trovare benefici punti di incontro. E davvero afasica è la stata la componente tecnico-scientifica in questi decenni, e per questo mi interessa di più capire perché le motivazioni culturali della riforma sfuggano innanzitutto ai tecnici, a tanti funzionari della tutela in primo luogo e forse anche a noi docenti, che dovremmo essere, per il nostro ruolo di formatori, la camera di consiglio della progettazione del futuro. Non c’è dubbio – molti lo hanno sottolineato – che questa è la seconda maxiriforma che interviene sul corpo stanco e malato delle nostre Soprintendenze. Capisco perfettamente la posizione di Filippo Gambari, che avrebbe auspicato maggiore gradualità (benissimo: ragioniamo su questo). Mi dico anche che una cura da cavallo può stroncare un corpo debilitato, ma senza alcuna cura quel corpo è destinato a perire. E la cura non può essere la sola reimmissione in vena di risorse e personale (che finalmente cominciano a riapparire all’orizzonte: almeno questo al Ministro dobbiamo riconoscerlo); occorre una cura radicale, che deve essere innanzitutto culturale e poi organizzativa, perché il patrimonio culturale non è più, o meglio non ha più l’immagine e il ruolo, che poteva avere ai nostri occhi di studenti nella bambagia delle facoltà degli anni ‘60 o ‘70, ma tocca nervi centrale dell’educazione, della cultura, del paesaggio, dell’ambiente, del confronto fra culture di questo secolo globalizzato e sfasciato. Se qualcuno si assume l’onere di dire che va tutto bene e che il giocattolo non va toccato, si assuma anche la responsabilità di dire come far funzionare quel giocattolo rotto. C’è anche una serie di critiche di carattere più direttamente politico, che contestualizzano legittimamente questa seconda riforma nell’orizzonte di una serie di provvedimenti di riforma della Pubblica Amministrazione, che hanno suscitato critiche severe, allarmismi giustificati, dubbi e perplessità anche in me. Mi riferisco alle norme sul silenzio-assenso, al ruolo dei prefetti nella nuova legge Madia, alla forme di gestione delle conferenze di servizio. Non entro in questi tecnicismi, peraltro di grande rilevanza, prendo atto di alcune rassicuranti osservazioni di giuristi di valore, come Sciullo recentemente su Aedon per quanto riguarda il ruolo dei prefetti… ma insomma, non mi basta. Prendo atto anche delle ripetute rassicurazioni date dal Ministro Franceschini, che ha sempre dichiarato che la funzione dei prefetti sarà di mero coordinamento territoriale dei vari servizi dello Stato, che non interverranno nella sostanza delle decisioni relative ai beni culturali, e che il parere del soprintendente unico, proprio perché unico, sarà più forte e autorevole; e conterà. Ma su questo è bene incalzare ministro e parlamento. Come va incalzato sulla vicenda dell’archeologia preventiva: si dice che venga tolta dal codice degli appalti per metterla direttamente nel Codice Urbani? Bene, ne siamo contenti: e allora si inserisca nel Codice Urbani e solo dopo si tolga dal codice degli appalti. Incalziamo la politica, mettiamola di fronte alla sue responsabilità, non facciamo sconti. Ma non guardiamo solo il nostro ombelico. Facciamoci carico anche del dovere della Pubblica Amministrazione di provare a dare finalmente risposte univoche e rapide agli enti locali, ai cittadini, alle imprese, come sarebbe normale in un moderno Stato democratico. Se Renzi da sindaco 5 anni fa aveva mostrato le sue idiosincrasie linguistiche circa la parola soprintendente, aveva forse torto quando definiva le Soprintendenze un potere monocratico che non risponde a nessuno? Non denunciava un problema vero, che è all’origine della percezione tutt’altro che partecipativa che la pubblica opinione ha verso l’amministrazione della tutela, e per proprietà transitiva verso l’archeologia? Non so quanti in questa sala abbiano letto la Convenzione di Faro del 2005, ma quella convenzione ha innovato profondamente l’approccio al patrimonio spostando in modo inequivocabile l’attenzione dal valore in sé dei beni al valore che debbono poterne conseguire le persone, traghettandoci dal “diritto del patrimonio culturale” al “diritto al patrimonio culturale” ovvero al diritto, individuale o collettivo, di trarre beneficio dal patrimonio. Ci abbiamo messo otto anni per ratificarla: vogliamo però prendere atto che è ad essa che ora ci dobbiamo attenere? Più sostanziosa – e da me condivisa – è la critica allo spezzettamento interprovinciale delle nuove soprintendenze, per non parlare del territorio di Roma, la cu nuova articolazione andrebbe almeno meglio motivata. Credo che farebbe assai bene il Ministro ad ascoltar la concretezza di quelle critiche, e delle difficoltà logistiche e pratiche che mettono in evidenza, che sia per la gestione degli inventari e degli archivi, dei depositi e dei laboratori: tutte questioni reali, concrete, tutte certamente risolvibili con la volontà politica e in parte con l’innovazione tecnologica, ma che attendono una risposta. Perché la loro risoluzione potrà diventare davvero il discrimine tra il buon esito della riforma e il suo eventuale fallimento. E lì si giocherà probabilmente l’adesione degli addetti, se, di fronte ad una scarsa percezione culturale della riforma, si farà ricorso ancora una volta alla abnegazione del buon funzionario, sempre utile mai decisiva. Andare avanti Personalmente ritengo che una organizzazione su base regionale sia di gran lunga preferibile e mi sento in sintonia con Gambari quando ricorda che a scala regionale sarebbero presenti tutte le competenze disciplinari, che con l’attuale carenza di personale potrebbero mancare a scala provinciale. Per non parlare delle opportunità di scambio umano e professionale allargato e generazionale che verrebbero garantite da una struttura unica. E per tacere delle economie di scala. Tra l’altro, l’organizzazione frammentata si concilia male con l’esigenza di produrre pareri sempre più rapidi, mentre l’organizzazione a livello regionale si adatta meglio al confronto con le competenze urbanistiche regionali, nei confronti della quali sarebbe preferibile operare alla stessa scala. Tanto più che proprio la redazione dei Piani Paesaggistici Regionali rappresenta l’attuale orizzonte dell’impegno e una sfida tutta da vincere, dove si vedrà quanto la nostra visione della tutela contestuale potrà incidere e fare da guida. Insomma, personalmente credo che una terza fase della riforma potrebbe anche riprendere in mano il discorso sulla valorizzazione e sui musei, dei quali adesso non posso certo parlare. La prima riforma Franceschini in questo campo ha innovato moltissimo, imponendo per la prima volta drasticamente (ed io non posso non essere d’accordo, anche se inizialmente ero rimasto perplesso) la pari dignità del comma 1 del nostro articolo 9 (quello sulla diffusione della cultura, che io leggo valorizzazione) rispetto al mantra del comma 2, che non sta in piedi senza una parallela attuazione del primo. Riunificare nelle Soprintendenze uniche regionali, una volta affermata e raggiunta la pari dignità dei due momenti, tutela e valorizzazione (musei, parchi…) può essere una prospettiva su cui ragionare, ma a partire dalla considerazione che ricerca, tutela, valorizzazione e gestione sono quattro cose ben diverse, che tuttavia si danno la mano: perché la ricerca ci fa capire il senso delle cose; la tutela ci dice come proteggerle; la valorizzazione ci dice come conservarne il senso diffondendone la percezione; la gestione ci dice come continuare a poterlo fare. E alla vulgata che tutela e valorizzazione sono la stessa cosa e quindi tutto deve restare così com’è, con la tutela al primo posto (quando ce la fa) e la valorizzazione in cantina, con i musei nella condizione di semplici uffici, per fortuna non è più possibile tornare. Formazione Tra noi possiamo dirci che tutto questo sconquasso mette ancora più a nudo il tema centrale che tutti li contiene e che ci investe direttamente: quello della formazione. Avranno i nuovi soprintendenti unici la capacità di gestire una tutela contestuale e multidisciplinare? Non dovremmo prima formarli? Poiché è insensato discettare se aspettare prima l’uovo o la gallina, lasciatemi dire che sulla carta ci sono almeno due temi fondamentali che vanno sotto il nome di Policlinici dei beni culturali e di Scuola Nazionale del Patrimonio, che prima o poi dovremmo affrontare di petto. Non piacciono i nomi? Se ne trovino altri. Ma che la formazione universitaria, anche in campo archeologico, debba trovare ispirazione e guida in una riflessione comune sul patrimonio culturale e sulle forme della ricerca/tutela/valorizzazione e gestione di questo patrimonio credo sia ormai chiaro a tutti. E questo ripensamento della formazione non riguarda solo le discipline archeologiche, storico-artistiche o architettoniche: il mondo del presente, non del futuro, ha bisogno, nella pubblica amministrazione e nel sistema diffuso del patrimonio culturale, di molte altre competenze specialistiche che toccano certo l’archeologia (geologi, bioarcheologi, archeometristi…), ma anche l’urbanistica, l’ingegneria, l’informatica e la comunicazione, l’economia della cultura. Sarebbe davvero bello se le nostre consulte potessero un giorno organizzare insieme con la nuova Direzione educazione e ricerca del Mibact una giornata di riflessione proprio su questo tema, per evitare sempre possibili e sciagurate scelte autoreferenziali dall’una parte e dall’altra. Conclusioni Insomma, le novità non sono mai giuste in sé. Ma il nuovo – così io penso - si misura sempre rispetto all’esistente. Dopo anni di una situazione deteriorata, di cui noi per primi ci siamo sempre lamentati, mentre l’archeologia e le altre materie attinenti il patrimonio culturale sono in difficoltà, idee nuove e progetti nuovi sono necessari per salvaguardare il meglio della nostra tradizione (e questa salvaguardia passa sempre attraverso una sua continua rimotivazione culturale), magari correndo qualche rischio, ma evitando le secche dell’impotenza priva di prospettive. Arricchiamo il dibattito presente, proponiamo aggiustamenti e miglioramenti, indichiamo puntigliosamente quello che non va, mandiamo al ministro o a chi per lui, le nostre critiche, osservazioni, perplessità, e possibilmente le nostre soluzioni, ma giochiamo al tavolo delle riforme. In un’età come questa, affascinante ma stretta tra l’immobilismo della paura di perdere antiche conquiste e la necessità di contribuire alla storia di cui vogliamo anche essere partecipi, ho cercato da tempo di lasciarmi alle spalle l’etica paralizzante dei principi, con le sue strade dritte che non portano in nessun paese, per affrontare le salite impervie dell’etica della responsabilità, perché – raggiunta una certa altezza – neppure possiamo immaginarceli gli orizzonti nuovi che ci si possono spalancare davanti, dettati magari da quelle utopie che forniscono il carburante alla concretezza dell’azione umana. E sempre Weber ci viene in soccorso quando ci dice che “non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all'impossibile". Certo, pensare responsabilmente l’impossibile, è il compito in primo luogo dei giovani. Ma è il ruolo dell’Università nel suo insieme: se noi docenti perdiamo di vista la funzione fondamentale di corpo pensante, critico dell’esistente e costruttore del futuro, abdichiamo alla cosa più bella che la sorte ci ha dato regalandoci il mestiere che professiamo. Come ha avuto la cortesia di scrivere Corrado Augias in risposta a una mia breve lettera qualche giorno fa su La Repubblica: “L’idea di cercare insieme una soluzione è sempre la strada migliore”. Facciamolo. Daniele Manacorda
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