Parco di Vejo: parco degli scempi e dell’abusivismo edilizio 01-10-2006 Luca Bellincioni
Negli ultimi tempi ha fatto notizia la demolizione di alcuni fabbricati costruiti abusivamente all’interno del Parco Naturale Regionale di Vejo (Lazio). Su tutti i giornali locali v’è stato un gran parlare di una presunta “linea dura” che le amministrazioni comunali, provinciali e regionali affermerebbero di voler attuare, per salvaguardare uno degli ultimi lembi della Campagna Romana. Vejo, in particolare, rappresenta un biotipo di eccezionale interesse, soprattutto se pensiamo che il territorio formalmente protetto, situato tra la Via Cassia e la Via Flaminia, ricade in parte ancora nel Comune di Roma e in altri comuni ormai divenuti al 90% “città satellite” della Capitale. Davvero a due passi da Roma, insomma, sopravvivono vaste zone naturali ed agricole, ricche di valori ambientali e paesaggistici di grande spessore. L’area geografica è quella dell’Agro Vejentano, che fu dominata, in epoca pre-romana e nei primi secoli dell’Urbe, dall’antichissima città etrusca di Vejo, di cui rimangono misere vestigia presso Isola Farnese, frazione di Roma, mentre in tutto il territorio del parco, però, sono presenti innumerevoli resti di insediamenti antichi e medievali, soprattutto necropoli. Molti sapranno, del resto, che pochi mesi or sono è stato scoperto il sepolcro più antico dell’Etruria, ossia la “Tomba dei leoni ruggenti”, cosiddetta per i dipinti che la adornano. Quello che segue, è il breve resoconto di una ricognizione effettuata nella zona delle Valli del Sorbo, tra Formello e Campagnano Romano, una delle aree più pregiate ed integre del comprensorio, ove sinuosi torrenti hanno scavato ripide forre tufacee rivestite da foltissima vegetazione, che lasciano qua e là spazio ad ampi e verdissimi pianori, ove pascolano i caratteristici bovini tolfetani dalle lunghe corna. Si tratta del classico, splendido paesaggio dell’Alto Lazio vulcanico: scenari, questi, che l’istituzione, negli anni ’80, del Parco di Vejo avrebbe dovuto preservare. E invece, com’è noto, la vicenda del condono (e il “post-condono”), che in quasi tutta Italia ha portato raccapriccianti devastazioni, ha lasciato anche qui il segno. Già l’accesso dalla Via Cassia a Formello prelude al degrado in atto: appena svoltati in direzione del paese si ammira un grosso polo industriale, sorto recentemente in piena campagna, proprio ai piedi della magnifica e caratteristica collina, spoglia e coltivata (e simile, come morfologia, ad uno scorcio delle celebri “Crete Senesi”) che domina il paesaggio formellese. Proseguendo lo scempio continua, con ville, villette e capannoni dappertutto lungo la strada, intervallati a qualche uliveto superstite. In questo modo non certo esaltante si giunge così a Formello, e qui l’ennesimo scempio. Sul borgo, ancora assai pittoresco, nonostante tutto, svetta una sorta di moderna torretta in legno, dalle linee orripilanti e demenziali, costruita negli ultimi mesi. Non sappiamo se si tratti di una copertura momentanea per via di lavori in corso (che pare comunque ci siano), ma le forme lasciano pensare ad una struttura permanente. Ci turiamo ancora una volta il naso e ci “consoliamo” (se fosse mai possibile “consolarsi”, dopo quello che abbiamo visto…) riflettendo sul fatto che il nucleo urbano di Formello è al di fuori dell’area del parco e che quindi più avanti la situazione dovrebbe migliorare. Macché, gli scempi sono solo iniziati. Prendiamo la strada per il Santuario della Madonna del Sorbo, all’inizio tutta in salita, e sempre accompagnata dalle solite ville. Subito dopo la strada sale ad un valico che “offre” una vista abbastanza ampia della valle sottostante (la Valle del Fosso della Mola). Ecco cosa vediamo: a sinistra si estende un lieve declivio ormai pressoché ricoperto di abitazioni e “freschi” scheletri di ville, mentre a destra spiccano i suggestivi crinali, spogli, ondulati e tutti coltivati, che sovrastano la sottostante valle, viceversa boscosissima: ebbene su tutte (dico tutte) le cime di questi crinali si “ammirano” ville nuove di zecca o ancora in costruzione, nessuna delle quali, per giunta, edificata in qualche modo “in stile”, ma tutte orrendamente in cemento, dalle forme moderne e dai colori impattanti (bianco e giallo soprattutto). Visto ciò, ormai completamente avviliti scendiamo sul fondovalle, in un prato “adibito” anarchicamente a parcheggio (il vero parcheggio, sterrato e con tabelle informative, è poco più sopra, ma nessuno ci lascia la macchina per non fare due passi in più…). Spiccano qui i tralicci di un grosso elettrodotto e varie ville seminascoste tra la vegetazione. Seguiamo dunque il sentiero che si inoltra nella vallata, subito bellissima e verdissima, nonostante i suddetti elementi deturpanti: in alto, tuttavia, si vedono ancora le grandi ville sulle cime dei crinali. Perlustriamo a fondo la valle, molto suggestiva per le querce secolari isolate, il fiumiciattolo, i grandi buoi al pascolo e per la presenza di una cascata, un ponte medievale ed una mola abbandonata: notiamo però con disappunto la sporcizia un po’ dappertutto, tra i cespugli, sul greto del fiume, sui prati. Lasciato questo angolo (perché davvero di “angolo” si tratta) di Campagna Romana, che ci prende il cuore e ci riporta indietro ai dipinti dei viaggiatori del Grand Tour, decidiamo di procedere lungo la strada per Campagnano, in direzione del Santuario del Sorbo. Superiamo altri bei prati, circondati da stupenda vegetazione, ma purtroppo anch’essi sporcati da alcuni idioti gitanti della domenica. Saliamo al terrazzino naturale del santuario e qui l’ultima “sorpresa”: di fronte all’isoletta di tufo dove sorge l’edificio del santuario (oggi in restauro), cioè dall’altra parte di uno spettacolare vallone, spicca, su un poggiolo panoramico, spianato e sbancato, un enorme scheletro di villa in cemento armato. Guardando in fondo alla forra, invece, si distinguono altre decine di costruzioni sulle colline. A questo punto, giunti all’apoteosi della demenza umana, dell’inciviltà e dell’avidità, giunti di fronte all’ennesima prova della veloce ed inarrestabile decadenza della cultura italiana, nonché della definitiva legalizzazione del sopruso del più “furbo” (o meglio, disonesto) sulla collettività, decidiamo, assai mesti, di tornare all’auto per andarcene. E’ quasi il tramonto, e i malinconici toni crepuscolari paiono ispirarci l’addio ad un luogo magico che nessuno ha saputo amare e difendere. Ecco, concludendo, il resoconto di un’escursione nel Parco di Vejo, come questo si presenta attualmente. Di fronte a tali e tanti scempi, perciò, ci viene da chiedere quale sarà il futuro di quel che resta (è non è poco) della Campagna Romana: scomparirà del tutto con il prossimo condono? Viene da chiederselo, se nel giro di due-tre anni molti dei paesaggi più belli del Lazio sono stati letteralmente spazzati via o seriamente compromessi da quella che è una vera alluvione di cemento, di quelle che non si vedevano dagli anni ‘50-‘60-’70. In molti avranno notato che ormai il paesaggio è ovunque “ornato” di gru, anche nei centri minori, spesso in zone lontane dalle città, magari in uso a qualche nuova lottizzazione sparsa nelle campagne. Ci si immagini allora il destino di un comprensorio così vicino (ed in alcuni casi praticamente interno) all’area metropolitana di Roma, composto per di più da paesi la cui cittadinanza fa il pendolare a Roma, e che quindi ha poco o scarso interesse a vedere preservato il proprio territorio. Di fronte alla catastrofe imminente e per certi versi già espletata, quel che auspichiamo è che le pubbliche ruspe inizino a muoversi seriamente, demolendo via via TUTTI gli ultimi inaccettabili ECOMOSTRI ABUSIVI, vergogna nazionale, e ripristinando, per quanto possibile, lo status quo ante. La lotta all’abusivismo e al folle concetto di “sviluppo” basato sull’edilizia debbono però iniziare ora e subito, con coraggio certo, ma senza più attendere. E’ dovere morale degli amministratori farlo, ma anche segno d’onesta da parte loro. Ai costruttori è stato concesso fin troppo negli ultimi anni ed è ora di finirla con questa grottesca tragicommedia. Che gli amministratori inizino a pensare anche agli interessi di chi lavora con il turismo di qualità (escursionistico, culturale ed eno-gastronomico): settore, questo, in grandissima crescita e non adeguatamente tutelato e promosso, e l’unico, nei territori con valenze ambientali, capace di conciliare un duraturo sviluppo economico locale e le necessità (oggi più che mai sacrosante e prioritarie) della conservazione. Chi investirebbe mai denaro in un territorio che non è tutelato? Ad esempio, chi spenderebbe mai centinaia di migliaia di euro per ristrutturare un casale o una casa colonica a fini agrituristici, per poi vedersi spuntare di fronte, da un momento all’altro, un ecomostro?
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