Ravenna, scacco alla “regina” 08-01-2007 Ercole Noto
Bocciatura sonora, anche se con possibilità di appello, per RavennaAntica, la Fondazione che aspira ad ottenere in concessione dal ministero per i Beni e le Attività culturali la gestione di parte del patrimonio storico e artistico locale, tesa alla valorizzazione dell’area archeologica e monumentale, con ricaduta di incremento del turismo culturale. Così mentre la Fondazione Aquileia fa un passo avanti nella definizione del testo del Protocollo d’intesa, che sarà sottoscritto fra lo Stato e la Regione Friuli Venezia Giulia, la Fondazione RavennaAntica rimane al palo; e non perché, come ha scritto una loro servente affiliata, essendo stata fra i primi soggetti in Italia a dare attuazione alla legge 368 del 1998, che consente la costituzione di associazioni e/o fondazioni miste pubblico-privato per la valorizzazione di beni culturali, ha pagato lo scotto della inesperienza, ma perché il testo del protocollo d’intesa era privo di quegli strumenti di natura procedurale atti a garantire sufficientemente le condizioni di “pari opportunità” dei soggetti congiuntamente coinvolti. In altre parole le regole scritte facevano pendere il piatto della bilancia solo da una parte. Non voglio buttarla in politica, per rispetto soprattutto dei lettori di patrimoniosos, un sito di conoscenza e divulgazione di raffinata cultura, ma nella terra dei cachi e della piadina romagnola, dove il popolo, per dirla con Stendhal, “odia i preti e tuttavia li adula vilmente”, l’opposizione è flebile e inibita, soffocata e intimorita da una stampa monopolizzata che si definisce di libera informazione - (d'altronde con i soldi l'editore, vicino alla maggioranza, è sempre pronto a far scrivere ciò che ritiene più utile per far piacere a qualcuno) - che gestisce le notizie a proprio uso e consumo, secondo schemi consolidati di apparente dinamismo che, come fumo negli occhi, offusca la realtà visiva e innesca il pericolo della politicizzazione del sistema, che in regime di monopolio privato favorisce – o favorirebbe – una classe politica spregiudicata, la cui vera ragione di tanto interesse manifesto nella gestione del patrimonio culturale locale è la creazione di ulteriori poltrone di potere, nell’interesse, secondo una logica di spartizione, di simpatizzanti o attivisti del partito di maggioranza locale; perché non impegnare, naturalmente pagandoli, i tanti laureati disoccupati in Conservazione Beni Culturali di qualsiasi credo politico? Il governatore della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani, non solo è virtuoso, come dichiara di essere nella conduzione del suo mandato, ma è anche un politico attento a sostenere le sollecitazioni dei suoi compagni di cordata, quale i ravennati, che aspirano a una sorta di imprimatur da parte della Conferenza delle Regioni che, in concertazione con gli enti locali, ha approvato un documento unitario per l’attuazione del Titolo V della Costituzione, che contiene indirizzi e principi ai quali si possa ispirare la delega in materia di applicazione degli articoli 117 e 118 della medesima, per arrogarsi la prerogativa della conduzione e gestione del patrimonio culturale locale, attualmente ancora gestito da uffici riconducibili allo Stato centrale e, quindi, al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Come dice il ministro Bersani, la sinistra per tradizione storica, a differenza di altre realtà locali, come le regioni del Centro Italia, è più flessibile nel realizzare dei progetti di privatizzazione; anche la Lega, per una rapida attuazione del federalismo fiscale, apre a sinistra, e la stessa, mentre prima era contraria, perché vedeva nel federalismo una sorta di caccia alle streghe, ora non vede l’ora di attuarla, per realizzare quelle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e di beni culturali, che la Costituzione già oggi consente siano disciplinate con legge dello Stato, su proposta delle regioni interessate. (Ri)propongo non integralmente, anche se con una certa contrarianza, per la ripetizione che se posso evito, quello che lo scrivente, in tempi non sospetti, (al Governo c’era un’altra maggioranza) scrisse sulla riforma in questione, che con il titolo “Diffidate dalle imitazioni” trovò spazio nella rubrica Lettere al Direttore de “La voce di Romagna” in stampa lunedì 6 marzo 2006.
[Con la riforma del titolo V della Costituzione discussa sotto il Governo Amato (ministro per i Beni e le Attività Culturali:Giovanna Melandri) e approvata definitivamente dopo il referendum confermativo del 7 ottobre 2001, e successiva revisione e miglioramento dell’ordinamento legislativo in materia di beni culturali (Governo Berlusconi; ministro per i Beni e le Attività Culturali: Giuliano Urbani), la potestà regolamentare per la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione spetta esclusivamente allo Stato. Le Regioni hanno potestà regolamentare in ogni altra materia nello spirito della cooperazione con altri enti pubblici territoriali (comuni, province e città metropolitane), nel rispetto del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, conosciuto anche come Codice Urbani, che disciplina il coordinamento, l’armonizzazione e l’integrazione delle attività di valorizzazione dei beni pubblici di interesse culturale. In sintesi, secondo il principio di sussidiarietà vengono demandati agli enti più vicini al cittadino funzioni e compiti che erano prima gestiti dallo Stato centrale. Ecco dunque che il ministero ai fini di un più efficace esercizio delle sue funzioni, in particolare, per la valorizzazione dei beni culturali e ambientali, può stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e con soggetti privati; può costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società; dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione dei servizi o attività finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio d’arte conferito, garantendone nel contempo l’adeguata conservazione; incrementare nel territorio di riferimento i servizi offerti al pubblico, migliorandone la qualità e realizzando quelle economie di gestione con il coinvolgimento delle fondazioni – (i cui assetti organizzativi interni vanno migliorati, per evitare, secondo Marcello Clarich, “il rischio della autoreferenzialità o della politicizzazione, accresciute la accountability e le garanzie di trasparenza”) - , per acquisire quelle risorse finanziarie sufficienti a garantire un’adeguata conservazione dei beni culturali affidati, promuovere il benessere e lo sviluppo delle comunità locali, il tutto secondo modalità e criteri ben definiti della legislazione. Tutto ciò in un Paese nel quale la società civile solo ora comincia a risvegliarsi da decenni di dipendenza dello Stato provvidenza, ma che è stato, ad un secolo dalle prime importanti norme sulle cose d’arte (la legge Nasi è del 1902; la legge Rosadi è del 1909), per certi versi ancora garantista di quei principi costituzionali ispiratori fondanti su alcune dichiarazioni di interesse pubblico (Cassese), formatisi, sulla scia della legge del 1909, soprattutto grazie agli interventi Bottai-Romano del 1939, e consolidatesi nel testo unico del 1999. Il Museo Nazionale di Ravenna ha assolto questo compito istituzionale promuovendo negli anni eventi culturali finalizzati oltre che alla conoscenza e fruizione del patrimonio d’arte in esso conservato, alle scoperte nel territorio; qualche esempio: Armi e armature del Museo nazionale di Ravenna, allestimento 1995; I mosaici di via D’Azeglio in Ravenna, 1995; La musica ritrovata (iconografia e cultura musicale a Ravenna e in Romagna dal I al IV secolo), 1997; Il gruzzolo di via Luca Longhi a Ravenna (città, monete e mercanti nel medioevo), 1997; Kemet (alle sorgenti del tempo), in collaborazione con il Meeting per l’Amicizia tra i Popoli, Ravenna 1998; Kostantinopel (Berlino e Ravenna – scultura bizantina a confronto), anno 2000. Tutto ciò era scandito dai tempi programmatici dell’attività istituzionale e avveniva non certo in regime di monopolio pubblico, di unilaterale esclusività, ma secondo una logica di coinvolgimento culturale delle realtà locali e nell’entusiasmo del personale tutto, in special modo quello tecnico-scientifico, che ora tenta di superare una condizione frustante di mortificazione cercando di rivitalizzare i processi decisionali dell’amministrazione in relazione alla valorizzazione, alla fruizione e alla tutela della res-pubblica. Una condizione diversa si registra a livello locale dove, dopo la riforma, le iniziative si concretizzano con i proventi delle sponsorizzazioni. L’ultima mostra allestita a Ravenna dalla Fondazione RavennaAntica ha come motivo ispiratore i mosaici pavimentali della basilica di san Severo a Classe, strappati a seguito di una campagna di scavo archeologico negli anni ’60 sono ora riproposti restaurati, dopo la presentazione nell’ambito della Settimana di studio dedicata ai Corsi di cultura sull’arte ravennate bizantina, con una rassegna dal titolo “Santi banchieri re”. Un’occasione sicuramente unica per far conoscere in special modo alle nuove generazioni i mosaici e i materiali venuti alla lu ce in quel contesto archeologico basilicale. Montati su dei supporti di cemento secondo una prassi del tempo, le sezioni musive vennero depositate nel terzo chiostro del complesso architettonico di san Vitale, sede del Museo nazionale, e non fruibili per mancanza di fondi. Allo Stato inadempiente ha rimediato ora un organismo territoriale, che a seguito della revisione e del miglioramento dell’ordinamento legislativo in materia di beni culturali, con la riforma del titolo V della Costituzione ha reso possibile la valorizzazione di un bene pubblico di interesse culturale.]
Probabilmente, dopo le opportune rettifiche del testo - (definire chi sono gli ‘attori’, chi parteciperà alla Fondazione e quale sarà il ruolo di ognuno, studiare i condizionamenti istituzionali di ogni ‘attore’, il patrimonio da conferire, come gestirlo, e tutta una serie di altre varie questioni da affrontare) - si arriverà alla approvazione del Protocollo d’intesa fra Stato e Fondazione RavennaAntica, per la gestione di una parte, almeno si auspica, del patrimonio storico artistico rivendicato (costituito dall’antica città di Classe con la relativa area archeologica - si spera che lo Stato non “svenda” la basilica paleocristiana di Classe dedicata al vescovo Apollinare, il monumento più visitato e rimunerato del pacchetto turistico - dalla Domus dei Tappeti di Pietra – scavo archeologico di via D’Azeglio – con la relativa chiesa settecentesca di Sant’Eufemia che dà accesso all’area dello scavo, e la Domus del Triclinio in Ravenna), ma sicuramente l’atteggiamento di questo ultimo partner deve essere improntato a un confronto più umile fra le parti in gioco, affinché non venga svilito il ruolo dello Stato stesso cui spettano le funzioni della tutela.
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