"Gli storici dell'arte e la peste" 04-04-2007 Gian Luigi Verzellesi ANISA VERONA
Per orientarsi nella boscaglia ombrosa della vita artistica attuale, senza cadere nelle trappole dei pubblicitari in servizio, ecco un libretto, un enchiridio (come dicevano gli antichi): un piccolo manuale quasi tascabile. S’intitola Gli storici dell’arte e la peste ( Ed. Electa) e raccoglie le testimonianze di quaranta studiosi intervistati da Sandra Pinto e Matteo Lafranconi ( i due curatori del libro) con l’intento di far luce sulla situazione problematica in cui versa “la comunità italiana degli storici dell’arte”, troppo spesso “tenuta al guinzaglio e usata per esclusivi scopi esterni”, “ a scapito delle necessità primarie” della disciplina, intesa dai quaranta nella sua specifica dimensione umanistica, che mira allo studio e insieme alla tutela del patrimonio artistico. La “peste” inclusa nel titolo di questa ghiotta indagine, diramata e ragionata, allude al Decamerone del Boccaccio, all’allegra brigata fiorentina che verso la metà del Trecento, “per sfuggire il contagio”, s’allontana dalla città appestata e ne rimuove l’incubo intrecciando memorabili novelle piene di arguzia. Ma la brigata degli storici dell’arte e dei soprintendenti interpellati non segue l’esempio allettante di quella trecentesca: rifiuta con coraggio ogni invito all’evasione spensierata e offre al lettore una fitta rete di notizie e diagnosi della nuova “peste” che, - come malattia indotta da fattori pragmatici dominanti nella società tecnologica – mette in serio pericolo sia l’esercizio della critica d’arte (come laborioso sondaggio interpretativo), sia i provvedimenti necessari per il restauro e la conservazione delle opere e del contesto paesistico connesso. Come figure esemplari di buon governo artistico, e come patroni della loro campagna di cultura controcorrente, avversa all’andazzo che riduce l’arte a frettolose e rombanti operazioni di marketing - gli studiosi intervistati hanno scelto due ben note persone prime: Roberto Longhi (1890-1970) e Giulio Carlo Argan (1909-1992). Ma accanto a queste due guide diversissime, non si può scordare che lo studioso italiano più attivo nella difesa d’una storia dell’arte non ridotta a “culturame” (dispersivo e afflitto dall’ipermostrismo per turisti svagati) è stato Cesare Brandi ( 1906-1988): come prova il libro su Il patrimonio insidiato ( pubblicato, a cura di Massimo Capati, dagli Editori Riuniti ) in cui sono raccolti “articoli di fuoco” (A.Bagnoli) contro la “peste” rilevata, descritta e contrastata dai quaranta dissidenti cresciuti alla scuola di Argan e di Longhi. Nel libretto felicemente protestatorio, anche Bruno Toscano riconosce i “tanti innegabili meriti” di Brandi; ma spetta a Caterina Bon Valsassina ( oggi direttrice dell’Istituto Centrale del Restauro romano) il merito di aver ribadito l’importanza della brandiana Teoria del restauro ( edita da Einaudi), che anche oggi è una preziosa “bussola per orientarsi” nel delicatissimo ambito degli interventi conservativi senza ricorrere al ripristino che accomoda (ossia falsifica) “la verità della materia originale dell’opera ai bisogni del mercato antiquario”. Altre bussole di salvaguardia, per sfuggire alla “peste”, sono indicate in altre pagine dell’inchiesta, in cui si rievocano le straordinarie doti educative di Paola Barocchi, Marisa Dalai Emiliani, Liliana Barroero, e l’esempio di tre soprintendenti, Andrea Emiliani, Nicola Spinosa e Luigi Ficacci, che hanno saputo difendere il loro lavoro di tutela dalla deriva burocratica che sonnecchia e lascia fare. Altre lucide argomentazioni si leggono nelle interviste a Ferdinando Bologna, Enrico Castelnuovo, Bruno Toscano, Giovanni Romano, Andrea De Marchi, Giovanni Agosti: studiosi che fanno onore alla cultura del nostro paese non meno dell’indimenticabile Previtali o di Arcangeli o di Volpe: tre discepoli cresciuti all’ombra stimolante di un maestro come Longhi, inarrivabile nell’arte di scrivere sull’arte, senza perdersi in divagazioni iconologiche, sociologiche, psicanalitiche. Divagazioni che invece ingombrano, e spesso deviano, le ricerche sull’arte contemporanea di cui si discute nella sesta giornata del Decamerone dedicato alle arti visive. In quelle pagine, è viva in tutti gli interlocutori la consapevolezza che “se si perde la presa sul presente anche il passato si restringe” (Brizio): ma “il tentativo di riunire l’antico con il moderno” è considerato arduo come connettere mondi “divenuti incomunicabili” ( Agosti). Dopo la “frattura” (segnalata da Belting nel 1983), i due diversi mondi, anche oggi, “sono rigidamente compartimentati”: sui cataloghi della critica militante di sostegno, “non c’è un accenno alla natura formale delle opere” ( Fergonzi). Ma la difesa dell’antiarte, di marca pubblicitaria, si è fatta sempre più spavalda. E si è accompagnata a forme di revisionismo che si rifanno a Bataille per snidare, con tripudio agghiacciante, le più varie specie visive dell’informe e dell’abietto . Ma da queste sensazionali tendenze più recenti ( che la Weil relegherebbe nel nichilistico “regno delle ombre”), gli umanisti arganiani e longhiani non si sentono attratti. |