Il parere di 29-10-2002 Andrea Emiliani, Presidente dell'Accademia Clementina di Bologna
La situazione attuale, a seguito di decisioni governative assunte senza consultazione alcuna con i livelli operativi e di lavoro del comparto artistico e della tutela culturale italiana, e tanto meno in accordo con le loro analisi di indirizzo politico-amministrativo, presenta una serie di contraddizioni e di deviazioni tali da esigere l’esame di un robusto numero di problemi. Sono decisioni che puntano con sicurezza, ormai, alla destrutturazione e alla dissoluzione delle tradizionali Belle Arti italiane. Ragioni ovvie di brevità e insieme di urgenza impongono di dare qui una valutazione di alcune soltanto tra esse, in ordine ad una triste gerarchia di trasgressioni rispetto alle norme più ovvie di democrazia e di educazione civile.
Ma c’è una premessa necessaria. Risalta subito in tutta la sua volgarità politica, dopo l’allontanamento di Paola Carucci dall’Archivio Centrale di Roma, la dismissione forzata dei membri del Consiglio per i Beni Culturali ed Ambientali: Giuseppe Chiarante, suo vice presidente, eletto ed anzi rieletto all’unanimità; Vittorio Emiliani e Luca Odevaine, rappresentanti del mondo delle Associazioni. Evidentemente sono stati ritenuti colpevoli di aver ricordato al Ministro Urbani la necessità di convocare quel Consiglio che - contro ogni norma di legge - egli non aveva mai riunito. Dopo averglielo chiesto per ben due volte a norma di regolamento (e cioè con tutte le firme necessarie in calce alla formale richiesta), essi erano costretti ad anticipare che, in caso di silenzio, avrebbero proceduto all’autoconvocazione del Comitato stesso. La loro dismissione è stata resa possibile in base alla legge Frattini e cioè a quello strumento chiamato ‘spoil system’ che sta rivelando ogni giorno di più di essere il metodo punitivo adottato per un’epurazione sistematica anche di membri di consigli eletti secondo regole basilari della democrazia occidentale.
Alcuni eventi tipici del dissesto dell’Amministrazione Artistica
L’amministrazione della tutela artistica italiana, costruita con competenza nel 1907 e appoggiata all’ottima legge 364 del 1909, prevista già nel 1902, riassumeva un’esperienza basata su una minuziosa conoscenza dei valori del territorio, dei processi di umanizzazione e infine di incardinamento di eventi creativi alle diverse aree culturali della penisola (Ricci-Rosadi). La legge fu rinnovata e solo parzialmente variata dalla commissione nominata da Giuseppe Bottai a consulenza dell’opera del Ministero della Cultura Popolare (n. 1089, 1 giugno 1939); l’organizzazione delle Belle Arti ne uscì rafforzata, così come in modo più consistente avvenne all’atto della creazione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali (1974), voluta da Giovanni Spadolini. Fortunatamente, la pressoché secolare legge di tutela – per quanto attaccata su numerosi fronti – ha resistito, confluendo per decisione del ministro Veltroni nel cosiddetto Testo Unico (1999). Essa assegna tuttora forza prevalente all’interesse pubblico e di comunità nell’azione di tutela e di salvaguardia dello Stato e delle Regioni, nonché dei Comuni. Il vero assalto alla più nota struttura culturale pubblica d’Europa avrà inizio proprio con la distruzione programmata dell’antica legge di tutela.
Gli organi periferici del Ministero, che sono i veri punti di forza d’una centralità burocratica per molti decenni inefficiente, hanno già visto iniziare un’azione di appiattimento e di volgare banalizzazione delle loro scelte culturali, a causa - e non da ora soltanto – di mutamenti e di correttivi dotati della ormai consueta carenza d’ogni esperienza tecnico-scientifica e critico-storica. Ci limitiamo agli esempi maggiori di destrutturazione effettiva:
a. Creazione del Soprintendente Regionale. Al di là dell’inefficacia di un rapporto individuale e individualistico con le amministrazioni Comunali, con le Giunte regionali e con lo stesso Ministero, la distruzione del principio salomonico del soprintendente inteso come dirigente inter pares non può che incidere negativamente sulla libertà di azione d’ogni ufficio decentrato, facilmente costretto a trasformazioni e a castrazioni delle proprie volontà. Grazie alla nomina di alcuni ‘caporali’ è caduto infatti il principio di libertà connesso alla piena responsabilità nella propria competenza – così scientifica come giurisdizionale - del capo di istituto. b. Non è un atto di mera sfiducia. Il Soprintendente regionale, messo davanti a visioni di ampia responsabilità pianificatoria o anche soltanto di immediata speculazione dei Comuni, delle Regioni e infine di interesse governativo, può rivelarsi disponibile proprio per il suo fragilissimo potere solitario a deformazioni programmatiche promosse da sollecitazioni politiche; per non sottolineare quanto merita che il nuovo, inedito responsabile d’una gestione sub-centralistica, per giunta, lavora per quattro quinti in presenza di discipline a lui ignote. I migliori, che sono per fortuna la gran parte, hanno saggiamente interpretato l’inedito ruolo come quello di un collega addetto ad informare e a migliorare il lavoro sul campo degli impegnatissimi capi di istituto. Ma l’ultimo creato d’una amministrazione fino ad ora equilibrata corre anche il facile rischio di divenire (come di fatto in alcuni casi avviene) il collettore autoritario, anziché l’interprete collaborativo, di decisioni che dovrebbero accogliere oggi ancora il senno d’una azione di valore scientifico e tecnico. Esiste infatti una politica d’istituto, risultato d’un lavoro intellettuale e d’una visione politica, della quale questa incerta figura di capoccia, in molti casi, potrebbe essere indotta a non condividere nulla. Oppure erigersi addirittura a copertura di interessi di gestione. Fortunatamente, questa fisionomia massonica e trasversale non appartiene – se non per allusioni tanto sventate quanto rarissime – all’ attuale realtà italiana: essa può tuttavia colorire in prospettiva un futuro pericoloso e preannunciare una caduta clamorosa della libertà della cultura. Peccato, abbiamo anche troppi veri, affettuosi amici tra costoro, e non vogliamo che ne escano danneggiati. E’ indispensabile ritornare alla libertà e all’autonomia garantite anche dagli organismi di reciprocità consultiva già previsti dalla legge Spadolini: e ciò con l’urgenza che l’ingresso delle Regioni nel governo dei beni culturali ormai sollecita.
c. Un evento di destrutturazione intellettuale e strutturale è costituito dalla distruzione delle Soprintendenze ai Beni artistici e storici nelle quattro città sede della patologia turistica – Venezia, Napoli, Roma, Firenze - dove tali istituzioni avrebbero dovuto curare, oltre ai musei, il patrimonio ben più preoccupante di chiese (come San Marco a Venezia oppure Sant’Andrea della Valle a Roma), e ancora di realtà spiccatamente individuali (Fiesole e Murano), e dell’intera area di immensi centri storici, piuttosto che gettarlo in gestione a Soprintendenze parallele – quelle Monumentali - che non hanno competenza (nonostante la presenza di alcuni storici aiutanti) e del resto non intervengono neanche nel disordine confuso suscitato dal turisdotto e dalle diverse malattie di Stendhal. A voler ragionare, queste patologie sono ampiamente superate da altre pestilenze, come l’abbandono che danneggia soprattutto le altre città (un numero immenso nell’intera Italia), cioè quelle non premiate affatto dal turismo; sono queste a soffrire in modo assai più marcato gli squilibri generati da una mancata gestione del turismo.
d. Il restauro naviga ormai in condizioni di consistente ipocrisìa normativa: è necessario ormai dotare le grandi sedi didattiche di istituti didattici aggiunti, anziché rimandare il problema coprendosi gli occhi con decisioni di valore accademico o curiale, come è quella di adottare una struttura solitaria come l’università, priva d’ogni mezzo esecutivo e tecnologico, e di passare così al solito insegnamento ex cathedra. Da decenni la vocazione delle Regioni a gestire il problema della formazione professionale è stata dichiarata a tutta voce. Con essa si riafferma l’ovvia competenza di legge del Ministero dei Beni Culturali. Infine, perché non parlare della vera sede d’ogni didattica sperimentale e manuale, e cioè dell’Accademia di Belle Arti? Lo faceva già Cavalcaselle nel 1862. L’Istituto Centrale del Restauro dovrebbe insomma divenire riferimento davvero impegnativo d’una serie (non eccessiva, ma sufficiente: una decina, diciamo) di Istituti regionali, capaci di affrontare le diverse specializzazioni necessarie, costituiti in Fondazioni, composte come ho detto da Beni Artistici, Regioni, Università e, infine, Accademie di Belle Arti, come anche da alcuni sapientissimi Istituti d’Arte. Altro che chiacchiere.
e. Sono stati molti, tra Otto e Novecento, i fautori di un libero, liberissimo mercato artistico. Ma nessuna categoria di mercanti assomigliava neppur di lontano agli attuali venditori governativi dell’intero patrimonio statale e pubblico, dal Colosseo alla Tomba di Dante o dell’Alfieri, dalla Primavera di Botticelli al Palazzo dei Montefeltro a Urbino. Non è vero, griderà qualcuno; ma la legge lo consente pari pari, e anche i pazzi possono salire a posizioni di comando. La Patrimonio spa è ormai una pericolosa realtà suicida, un morbo di quella spettacolare ignoranza che il giovane Stato unificato italiano ha continuamente combattuto e vinto nella battaglia parlamentare che va dal 1861 al 1902 .
f. Qualcuno obietterà che il Regolamento 283, art. 32, firmato dal Presidente Ciampi, e pubblicato in data 7 settembre 2000, disciplina la materia delle concessioni dei beni artistici anche demaniali; ma i dubbi non vengono mai meno. Per esempio, la Legge 410 del 2001 ha escluso addirittura dall’esercizio del diritto di prelazione gli Enti locali, quelli Provinciali e infine quelli Regionali in caso di vendita di beni statali. Abbiamo ascoltato con molto interesse le proteste del sindaco di Venezia, Paolo Costa.
Una decisione in apparenza salomonica , quando si giunge in presenza di questi progetti, è quella di invocare la costruzione di un catalogo nazionale dei beni statali, che possa essere facilmente consultabile in modo che la scelta delle liquidazioni di fine stagione di uno Stato collassato e debole possa perfino facilmente distinguere tra ciò che conviene vendere, o ipotecare, oppure (orrendamente) cartolarizzare e trasformare in azioni a babbo morto. Di inventari e di cataloghi della cosa pubblica si cominciò a parlare presto, come voleva già nel 1773 l’abate Zanetti per conto della Serenissima, ma al solo scopo di consolidarne la proprietà pubblica. Seguirà il Cavalcaselle e soprattutto Adolfo Venturi darà sviluppo istituzionale all’operazione. A decorrere dal 1888, il catalogo saliva al ruolo di analisi permanente e quotidiana che non solo dava conto dell’esistente, ma ne tracciava le linee storiche, le ragioni liturgiche, le condizioni materiali. E di più, ne suggeriva l’identità e, con l’attribuzione induttiva e deduttiva, creava gli anelli e le congiunzioni, serrava la catena stessa, tramava il tessuto dell’arte italiana. Proprio come gli esami, i cataloghi non finiscono mai. L’universo delle relazioni formali figurative si costruisce con la pietra del paragone, e ogni oggetto riconosciuto è un passo irreversibile verso la crescita del patrimonio basata sull’accrescersi della conoscenza. Caravaggio nel 1910 non valeva certo gran che, tanto che un ministro incolto avrebbe potuto venderlo per poche lire. Chi ha dunque tirato il pittore maledetto verso i vertici della fama (e della valutazione economica) se non la conoscenza e lo studio? E se qualche dissennato avesse tentato allora di vendere la Madonna dei Pellegrini della chiesa di Sant’Agostino di Roma, che cosa diremmo di lui, oggi? Bisogna dunque accogliere l’insistenza governativa, quella che invita a redigere i cataloghi, non con la speranza di ricavare da questi gli elenchi del vendibile, ma al contrario per farne un’arma di benefica difesa. Il catalogo che facilita le cessioni (a chi? a quali privati? a quale capitalismo italiano, assente e inattendibile per cultura?) è una pia illusione. Il catalogo aumenta con la conoscenza gli anticorpi da opporre alle false economie di distruzione. I risultati del vero lavoro scientifico saranno sempre più utili alla diffusione pubblica del patrimonio. L’opera della conoscenza scava sempre più ampie e profonde le ricche miniere (Boschini, 1664) del patrimonio pubblico italiano. Il quale non può che aumentare con il tempo e con lo studio, nonostante l’opera dissennata della Patrimonio spa. |