Il Mibac, gli indirizzi della politica e il ricorrente problema morale 01-12-2008 Francesco Floccia
Tra le migliaia di adesioni all’appello dell’”Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli” del 18 novembre 2008 sul tema “Contro l'istituzione di una Direzione generale per i Musei e l'affidamento a un super-manager” pubblicate nel sito “www.bianchibandinelli.it/appello_super-manager_musei.htm” ho “conteggiato” in particolare tre categorie di interventi: sulle oltre tremila firme di consenso (a sera di oggi 26 novembre) un gruppo di nominativi si qualifica come appartenente all’Amministrazione del Ministero Beni e Attività Culturali; un altro cospicuo gruppo appartiene all’Istituto di Storia dell’arte dell’ Università “La Sapienza” di Roma anche se, a dir poco, la grande maggioranza dei consensi è rappresentata da studiosi francesi di varie Istituzioni culturali nonché professori, studenti, cittadini presenti in numero preponderante rispetto alle adesioni provenienti da analoghe istituzioni o cittadini di altre Nazioni. Il perché ci sia stata tanta partecipazione dalla Francia a ll’appello in questione non so né lo comprendo: se c’è una ragione specifica, storica o contingente, lo ignoro. L’adesione però di tanti studiosi e allievi in forza presso l’Istituto di Storia dell’arte della Sapienza in numero proporzionalmente alto rispetto al gruppo dei nominativi appartenenti al Mibac mi incuriosisce e stupisce: collego ancora tale “Istituto di Storia dell’Arte” al pensiero del Professor G.C.Argan e penso che la memoria del suo indirizzo aleggi sempre fra quelle aule almeno fin tanto che vi lavorano docenti e studiosi che discendono dagli insegnamenti del celebre Maestro. Non dimentico infatti la conclusione con la quale il Professor Oreste Ferrari chiudeva il suo intervento “Dalle Belle Arti ai Beni Culturali” presente nel piccolo volume “Giulio Carlo Argan. Storia dell’arte e politica dei beni culturali”, Edizioni Sisifo 1994, pp. 41-54: “Il suo passaggio all’università, nel 1955, non lo sentimmo come una perdita: sentimmo bensì che la presenza di Argan sui problemi della tutela e dello studio afferente alla tutela si sarebbe mantenuta diversa e tuttavia costante, puntuale, battagliera. In altri modi, in altre circostanze, Argan resterà fino a un anno fa un grande “funzionario” delle Belle Arti” (p.54). Lo vedo eccome l’Argan battagliero e non in quanto personaggio politico bensì come uomo di pensiero che – terminata la seconda Guerra mondiale – “con altri studiosi… si intraprese l’opera di ricostruzione del patrimonio culturale, di risanamento delle devastazioni da questo sofferte” (p.53). Proseguirono anche gli studi tra i quali un risulta to fu il volume su Walter Gropius: “il suo lavoro di funzionario si mantenne intensissimo” e restò “punto di riferimento” – ricorda ancora il Prof. Ferrari – per chi faceva parte dell’”amministrazione delle Belle Arti” di quegli anni. Credo che gran parte tra i più maturi degli storici dell’arte oggi ancora in servizio nell’ Amministrazione provengano dalla “scuola di Argan” e credo anche che ognuno sappia, per quanto gli compete, come intendere il termine “battagliero” attribuito da Oreste Ferrari al Professore e viverlo nel multiforme servizio di funzionario Mibac: per quanto mi riguarda la formula sta proprio nell’introduzione al testo “Walter Gropius e la Bauhaus”, Giulio Einaudi Editore 1951, seconda edizione, ove, alla p. 24 il Prof. Argan dice: “La vera, autentica vita non sarà più quella che si attua nella contemplazione ma quella che si attua nell’azione; la concreta e non illusoria realtà non sarà più quella che dà nel distacco sereno della meditazione, ma quella che si incontra nell’impegno drammatico dell’agire”. A cosa si riferiva questa considerazione peraltro conclusiva di un pensiero precedentemente esposto? Alle cosiddette “classi dirigenti” che “rinunciando al loro prestigio ed esplicando la loro autorità” si avvarranno della propria “razionalità” non più nella sola “designazione di concetti generali ma nella serie infinita degli atti dell’esistenza”. Nessuno può interpretare alla lettera il Professore – e men che mai se lo concede il sottoscritto - ma la lezione che colgo a tanti anni dalla Sua scomparsa è appunto quella che indica di agire, nel campo dell’amministrazione dei beni culturali, con l’occhio attento alla realtà storica del momento e non già considerando immutabile il proprio personale status di studioso o di tecnico di storia dell’arte. “Bisogna dunque che l’arte sia tale da poter venire completamente riassorbita nella circolazione della vita” (Id, p. 22): ma un’Amministrazione statale che s’arrocca a fronte di nuove iniziative che pur provengono dal suo interno, fosse anche l’imponderabile, come fa a seguire i mutamenti della società, delle giovani generazioni, dei linguaggi dei tanti cittadini di altre culture presenti in Italia e che hanno in sé tutti i presupposti per conoscere e apprezzare ogni forma d’arte ma percepiscono – sicuramente - come desueto ed estraneo al comune sistema di vita quotidiano il metodo informativo (medium) che lo comunica? Constatare allora che nel sito “www.bianchibandinelli.it/appello_super-manager_musei.htm”, rispetto al numero complessivo nazionale, dipendenti del Mibac hanno aderito al documento Bianchi Bandinelli del 18/11/2008 relativamente in minor numero degli Storici dell’arte dell’Istituto romano della Sapienza mi fa pensare che quel concetto espresso dal Prof. Ferrari (Argan è rimasto, anche dopo essere passato all’Università, un “grande ‘funzionario’ delle Belle Arti”) abbia avuto l’intento di distinguere l’uomo di azione e di vedute necessariamente progressive da chi è maggiormente dedito alla “contemplazione”, alla “costruzione dei grandi sistemi” seppur perseguiti attraverso la “ragione” (Argan, cit., p. 23), da chi in definitiva ha una visione speculativa dell’opera d’arte e alla quale ci si può avvicinare in pochi e non già esserne sedotti e trascinati in molti. Ricorda anche il Prof. Ferrari nello scritto sopra citato il progetto formulato dall’Argan in concomitanza con il suo rientro dagli Usa - “ove s’era recato per le mostre dell’arte italiana a San Francisco, Chicago e New York” - riguardo alla “costituzione di un Istituto per la promozione dell’arte moderna, che si configurasse come un museo-laboratorio…; un organismo che ‘dovrà essere soprattutto un centro di studi: sotto il controllo del Ministero ma indipendente per poter realizzare la sua funzione sperimentale e polemica’” (Ferrari, cit., pp. 50-51). E poi anche il progetto di un “’sistema museale’, come oggi si direbbe con funzioni non soltanto conservative bensì essenzialmente promozionali e didattiche” e anche la possibilità di un “decentramento di istituzioni” museali non ebbero seguito per censure politiche, per le probabili diffidenze nei riguardi di un temuto sganciamento delle idee, orientamenti e consuetudini dalla struttura amministrativa centrale che sempre e tradizionalmente tutela il bene culturale ma anche la propria non scalfibile ortodossia. Perciò non mi meraviglio delle attuali reazioni di parte degli studiosi di scienze umanistiche che dall’Italia – e in tanti, incredibilmente numerosi dalla Francia – hanno temuto e temono il “superdirettore” del Mibac: sicuramente il ministro degli anni Quaranta, pur ritenendo necessaria l’istituzione di una nuova direzione generale voleva però chiari e fermi i presupposti per mantenere saldi i controlli sul mondo dell’arte: “La costituzione dell’Ufficio per l’arte contemporanea presso il Ministero – rispondeva Bottai in un’intervista al “Corriere della Sera” del 24/1/1940 - è indubbiamente, dal punto di vista della tecnica amministrativa, un fatto nuovo ma risponde a esigenze da molto tempo avvertite, sia da parte degli artisti sia dal Ministero nell’esercizio dei suoi compiti educativi” (In: Giuseppe Bottai, “La politica delle arti, scritti 1918-1943”, a cura di Alessandro Masi, Editalia 1992, pp. 222-228). Allo Stato spetta infatti “creare le condizioni, gli incentivi, l ’organizzazione, l’informazione attraverso le quali e la pittura e la scultura possono raggiungere i loro destinatari”: cfr. anche Paolo Fossati, “Pittura e scultura fra le due guerre”, in “Storia dell’arte italiana”, parte II, volume III, Giulio Einaudi Editore, 1982, pp. 234-235. Affiora dunque ancora oggi nell’ambito dell’Amministrazione italiana dei Beni Culturali il concetto di reciproco controllo: o è il ministro a temere il “signor burocrata” (Bottai in “Per l’inaugurazione del Terzo premio Bergamo”, “Le Arti”, ottobre-novembre 1941” in: A. Masi, cit., p. 261) o viceversa è la struttura ministeriale a ritenere improprie scelte della gestione politica del Dicastero: si rinnova dunque il ricorrente eroico, dialettico scontro tra bene e male ove, a chiasmo, talvolta il male sono i dipendenti, talaltra il ministro. Ma noi, ai giorni nostri, quand’anche polemici, siamo saldi nelle azioni e nell’idea della tutela delle cose dell’arte grazie alla lezione complessiva che ci ha lasciato, tra gli altri, anche il Prof. Argan che - valga un’ulteriore frase tratta dall’analisi critica su Walter Gropius - ci ricorda come “l’esistenza…è una razionalità di principio, che rifugge da ogni schematismo logico ed investe, giustificandoli, anche gli impulsi più schietti dell’essere umano. Il primo dei quali è pur sempre il creare, ch’è un partecipare della realtà e accrescerla di nuove forme” (cit., p.29). Non può accadere dunque che l’arte come concetto, tecnica e funzione pubblica cammini col tempo e chi la studia o tutela d’ufficio non accetti invece tale realtà rinunciando così, antistoricamente, alle sfide e alla razionalità della critica. 26/11/2008 Francesco Floccia |