Zanzotto è la cometa del Veneto: ma il suo impegno va rinnovato da ciascuno di noi, anche a Castello Roganzuolo! 04-12-2009 Paolo Steffan
25 11 2009
Questo è un articolo che avrei voluto scrivere qualche settimana fa, perché prende le mosse da un piccolo dato scandaloso da me rilevato, che va a confermare le tesi di studiosi come Eugenio Turri, Francesco Vallerani o Mauro Varotto, nonché del capofila Andrea Zanzotto (specie quel Zanzotto ultramaturo di In questo progresso scorsoio), circa i preoccupanti mutamenti antropologici intervenuti sui veneti negli ultimi decenni e relazionati al problema del paesaggio.
Castello Roganzuolo (TV), venerdì 30 ottobre 2009 – in questa data, alle ore 20.30, presso la casa canonica del paese, si teneva un’assemblea per discutere il restauro di cui abbisogna il campanile della chiesa monumentale: non si tratta di un monumento qualsiasi, ma del simbolo di Castello Roganzuolo, nonché della torre superstite del castello che vi sorgeva fino a mille anni fa (cfr. la specifica voce di wikipedia da me compilata)! Ebbene, a quest’assemblea, su una comunità di circa 2000 cittadini, di cui vasta parte sono anche parrocchiani, hanno partecipato 20 persone, nelle quali sono inclusi anche i 2 relatori e i 2 organizzatori dell’incontro!
Questo dato, piuttosto demoralizzante, torna utile per sottolineare il distacco dei veneti da quella terra che fino al primo novecento avevano saputo, pur nella miseria e nella marginalità, far diventare edenica.
Ecco che negli stessi giorni di quella delusione numerica, messa in secondo piano però dal progetto dell’atteso restauro del campanile, nasce sulla mia terra un nuovo motivo di turbamento: si tratta dell’ennesimo attacco al patrimonio rurale italiano, vittima nel secondo Novecento di degradi, distruzioni ed irreversibili manomissioni.
Le case rurali, di diverse tipologie dipendenti dagli habitat e dalle destinazioni d’uso avute nei secoli, sono, oltre che un valore architettonico da trattare con cura, anche la chiave di lettura più preziosa della storia delle microumanità che hanno vissuto la nostra Italia, il nostro Veneto, la nostra bella Castello Roganzuolo. Esse sono l’ultimo dovuto soffio concesso al cuore di una civiltà a tutti gli effetti morta, ma che costituisce il nostro millenario passato di cui – a torto – troppo spesso ci vergognamo, come se essere stati poveri (economicamente) sia una colpa. Anche per questo quegli edifici non sono solo delle architetture ma un continuo richiamo all’ieri, così importante oggi – assorbiti dal mondo della tecnica – per non deragliare troppo dalla strada dell’umanità (termine che etimologicamente rimanda a humanitas, che ha in sé la carica semantica della benevolenza e della civiltà, attributi che assicurano la vita delle società di esseri umani, per i quali la tecnica deve essere un vanto e un arricchimento, non un mezzo nevrotico di accumulo pecuniario e di morte).
La casa rurale di via Moranda Alta – Questa casa è uno dei tòpoi della mia infanzia e giovinezza (dunque della mia vita attuale), ma anche uno dei tòpoi di Castello Roganzuolo, per la sua caratteristica tipologia e anche per la sua posizione, su una storica calle dell’antica viabilità rurale, cioè la Moranda Alta.
Nell’autunno 2009 questo bene culturale privato ha iniziato a subire degli interventi di “ristrutturazione e AMPLIAMENTO”: la gravità del secondo termine mi ha fatto reagire non bene, sconfortandomi molto. Però, allo sconforto è seguita la rabbia per un’altra minaccia alla nostra realtà storica (e ricordiamoci che anche il presente è storia!) sempre più violata da interventi perpetrati da inconsapevoli e speculatori: perciò, alla luce della vicinanza geografica e sentimentale, mi sono attivato nel chiedere una verifica della compatibilità degli interventi in atto.
L’ufficio comunale competente (ufficio edilizia privata del comune di San Fior) non può rilasciarmi alcuna informazione, perché nella nostra Italietta anche un omicidio è capace di essere coperto da privacy ormai: sicché ho dovuto dedurre dai pochi elementi e dai miei sguardi cosa toccherà in sorte alla casa rurale: sarà trasformata in una grande e perfetta villetta, con conversione di stalla e granaio in residenza rustica, dicitura abusata e che trovo disgustosa. Fin qui non resta che piangerci.
Però, nella ricerca che ho subito intrapreso – nei ritagli di tempo tra università e cose varie – ho trovato il decreto del Ministero dei Beni Culturali del 6 ottobre 2005, il quale salvaguardia da ogni attacco le case rurali e i loro rapporti col territorio tradizionalmente elaboratosi in armonia con le realtà agricole specifiche. Il senso della casa rurale di via Moranda Alta sta tutto nella sua forma a L, il cui braccio minore è costituito dalla stalla, peraltro dotata di intonaci e forometria di rara bellezza – elemento che differenzia questo edificio da una normale abitazione: infatti quello che nel decreto è il “particolare riferimento al legame tra insediamento e spazio produttivo e, in tale ambito, tra immobili e terreni agrari” si esaurisce tutto nella presenza di questo annesso, che ora, a quanto pare, sarà destinato a diventare un comodo salotto dove giocare con la playstation 4, 5 o chessoio! Se alla casa rurale vengono tolti i suoi elementi costitutivi, oltre che contravvenire al contenuto della citata norma, si porta avanti un’eredità tipica del secondo Novecento: quella di cancellare i segni del vergognoso passato di contadini, che va invece mantenuto nella sua autenticità, per poter così ampliare la nostra visione del mondo a partire dalle microrealtà dei luoghi in cui viviamo, viaggiando nel tempo e restituendo – finalmente – il giusto riconoscimento a quei piccoli rappresentanti della storia che nei libri non hanno mai trovato posto.
Perché, restando a Castello Roganzuolo, la presenza dei Da Camino col loro castello, quella di Tiziano Vecellio con il suo trittico e con le sue vigne, quella di Francesco da Milano con i magistrali affreschi, sono solo i capolavori e l’apice di una cultura e di un’economia che alla loro base sono fatte dagli umili, ma da umili dotati dell’orgoglio di avere delle belle case rurali, una chiesa e degli oratori di invidiabile splendore, un tessuto collinare dove potersi riposare delle fatiche del lavoro.
Un orgoglio che oggi manca più che mai, tutti impegnati come siamo a guadagnare e raspàr sù tut, sfrecciando la domenica con una decappottabile per le strade di campagna, non accorgendoci che – davanti casa – stanno facendo, di un bene culturale simbolo della ruralità, un oggetto di speculazione.
Con ciò non voglio accusare di cattiva fede chi sta portando avanti un certo tipo di opera – con tutta probabilità inconsapevolmente – distruttiva, ma sto accusando gli abitanti di Castello Roganzuolo – e più in generale i veneti – di disaffezione, di disamore per ciò che hanno: se la nostra lungimiranza non va più in là del portafogli o di uno schermo televisivo, credo che appena – per un motivo o per l’altro– saremo costretti a guardarci veramente attorno, troveremo solo distruzione e angoscia in tutte le forme che ci circondano. Proprio perché si è smesso di lavorare su quella forma (in latino forma = bellezza) a cui tenevano tanto i nostri antenati ed alla quale l’ultra-ottantottenne Andrea Zanzotto non smette mai di RI-sensibilizzarci!
© Paolo Steffan
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