Di certo il punto di vista del sindacato può coincidere, solo in parte, con l’inquadramento politico dei problemi.
Il sindacato oltre alle garanzie a lunga scadenza, ritenute fondamentali, ricerca anche risposte concrete per l’immediato:
risposte reali per la qualità del lavoro, per la dignità dei lavoratori e per lo sviluppo del settore.
Premessa necessaria per una valutazione critica del programma
per i Beni Culturali formulato dall’Unione.
L’intervista della senatrice Vittoria Franco sull’Unità del 12 gennaio u.s. aveva aperto gli orizzonti ad un moderato, ma concreto, ottimismo.
La lettura del testo integrale del programma, che verrà presentato alla prossima convention dell’Unione,
ha in parte disatteso tali aspettative.
Pensavamo si trattasse di un programma essenziale, asciutto, privo di facili e abusate dichiarazioni di principio (allo
stato attuale del settore anacronistiche e fuori luogo), rivolto alla soluzione di problemi precisi e a colpire obiettivi puntuali.
Leggendo le sei pagine del programma che riguardano i beni culturali in senso storico, vale a dire senza sport e spettacolo, non abbiamo individuato alcuna ipotesi di modifica definita a livello esecutivo, vale a dire immediatamente applicabile. La fase storica in cui si trova il MiBac è, senza alcun dubbio, quella dell’emergenza. Ed in questa fase gli unici programmi e progetti che possono essere formulati sono quelli immediati, di facile e sicura attuazione, rivolti al ripristino di uno stato di normalità.
Successivamente si potrà parlare di grandi e vasti sistemi.
In questa situazione di emergenza del MiBac non sembra né opportuno, e tantomeno necessario introdurre il nuovo concetto
di “distretto culturale”, che implicherebbe, di nuovo, una rifondazione radicale degli uffici ministeriali e delle strutture periferiche.
“Ridisegnare le relazioni amministrative”, come ipotizzato nel programma, con gli enti pubblici territoriali è un obiettivo difficile e dai risultati tutt’altro che sicuri. E comunque è un
obiettivo a lunga scadenza che non potrà introdurre alcun miglioramento, di sicuro potrà aumentare, in una prima applicazione, solo la confusione.
Ci sembra poco sostenibile l’ipotesi di voler porre solo dei correttivi alla società ARCUS s.p.a., in ragione di una maggiore trasparenza e maggiore corrispondenza con gli obiettivi pubblici dei finanziamenti alla cultura, sotto l’indirizzo ed il
controllo del MiBac. Tutti correttivi largamente condivisibili ma, inutili, in quanto di fatto impegnerebbero ancora di più il Ministero. Considerato, quanto previsto nel programma, vale a dire che l’attività di ARCUS deve corrispondere: agli
obiettivi del Ministero; deve avere gli stessi indirizzi e deve essere controllata dal Ministero non sarebbe più logico e razionale se la gestione del 5% proveniente dai fondi destinati alle infrastrutture venisse inserito direttamente nelle risorse
del MiBac e gestiti all’interno della programmazione triennale? Si ricorda, inoltre, che la società ARCUS è stata istituita con personale proveniente dal MiBac. Quale ragione può determinare la conservazione di un società autonoma se poi non ha auton
omia decisionale e di gestione?
Il programma indica fra le misure ritenute necessarie quella di istituire, presso il Ministero, un nuovo ufficio quale “Osservatorio della Cultura”. Non vengono
indicate le modalità di istituzione e le finalità dell’ufficio stesso, pertanto non è facile capirne il senso compiuto.
Possiamo ipotizzare che potrebbe essere un ufficio speculare, o in qualche modo simile, agli Osservatori dei Lavori Pubblici o all’Autorità di vigilanza dei LL.PP., istituiti con la legge 109/94 e regolamentati dal DPR 554/99. Segnaliamo che presso
il ministero esiste già il Dipartimento per la ricerca l’innovazione e l’organizzazione, che istituzionalmente ha competenza su risorse umane, formazione, innovazione tecnologica, bilancio, promozione e affari generali e riteniamo, qualora
regolamentata, possa ampliare i propri compiti prevedendo un sorta di “Osservatorio”. La funzione di “osservazione”, naturalmente, dovrà essere normata in modo rigoroso, individuando le finalità, le procedure, gli obblighi, le competenze e
le eventuali sanzioni, in un quadro regolamentare che assicuri certezze, correttezza e trasparenza.
Una riflessione particolare merita la tematica del silenzio-assenso, riportata in uno dei punti del programma quale rischio per Beni Culturali. È un falso problema.
La stampa e l’informazione hanno più volte trattato l’argomento; non hanno contribuito a fare chiarezza e ne hanno ingigantito la portata. L’argomento necessita di una doverosa revisione e di un approfondimento anche e soprattutto in considerazione del fatto che da quasi un anno, tale procedura, viene correntemente
applicata. Senza fare facili illazioni e senza entrare nei meandri di un testo non chiaro che ha generato incertezze e diversità di interpretazioni come la legge L.
326/2003 (art. 27 comma 8, 9,10, ….”
In sede di prima applicazione……..) a cui l’art. 12 del Codice Urbani fa riferimento, è da registrare che la procedura prevista dal
citato articolo del Codice è complessa e rigorosa. L’accordo fra Agenzia del Demanio e MiBac del febbraio 2004 (Spitz-Cecchi) ha ulteriormente completato l’impianto normativo
che, allo stato attuale, offre garanzie maggiori di qualunque altro precedente regolamento. Chiaramente se non viene dichiarato l’interesse culturale il bene non è più soggetto alla legge di tutela e viene sdemanializzato. Ma la mancanza di
dichiarazione dell’interesse culturale non può essere imputata al previsto e sciagurato principio del silenzio-assenso.
Ritorniamo all’accordo Demanio-MiBac che stabilisce le modalità di presentazione delle schede, le notizie storico culturali
che devono essere fornite, la documentazione catastale e fotografica necessaria per presentare la domanda e stabilisce il contingentamento delle richieste da trasmettere alle Direzioni Regionali.
Di certo la procedura, per la sua complessità, non può essere indicata quale veicolo che agevola e favorisce la sdemanializzazione di beni culturali. Per ridurre ulteriormente i rischi di una possibile attivazione automatica del silenzio-assenso che, tra l’altro, allo stato attuale, vale a dire nelle fasi successive alla prima applicazione, sembra essere decaduto, le Direzioni Regionali potrebbero eliminare un passaggio ed attrezzarsi per rispondere in modo autonomo, senza le ulteriori lungaggini dovute alla trasmissione alla Soprintendenza di
settore per l’istruttoria di merito che implica, in alcune regioni, anche l’obbligo di un sopralluogo. .
Verifica dell’interesse culturale art. 12; regime
dell’autorizzazione ad alienare art. 57; acquisto in via di prelazione da parte dello Stato o di altri enti pubblici territoriali art. 60.
I tre articoli del Codice definiscono un corpo normativo che, al di là della questione del silenzio-assenso, per la vendita ai privati di un bene culturale di proprietà statale è necessaria una volontà reiterata a più livelli e in più fasi. Non si
comprende, in via di principio, in un paese come il nostro che negli ultimi trenta anni ha privatizzato settori fondamentali dello Stato, l’aprioristico dogma della “sospensione della vendita di beni previsti dall’attuale governo” contenuto nel programma.
Cosa significa che agli Enti territoriali non è data la possibilità di vendere, per esempio, un edificio costruito nel 1950 che oggettivamente non ha alcun interesse culturale, anche se
soggetto alla legge di tutela in base all’art 12 comma 1, o alle Curie non è concesso di alienare i numerosi casolari che possiede, tutti in stato di abbandono, sui quali è possibile eseguire solo interventi di recupero? È utile sottolineare
che a quasi un anno dall’applicazione dell’art 12, conosciamo bene alcune realtà, le richieste pervenute alle Direzioni Regionali riguardano solo immobili che solo in via cautelare sono sottoposti alla legge di tutela, vale adire per il solo
criterio che sono stati costruiti da più di cinquanta anni. Tipologicamente afferenti e simili alle due categorie di costruzioni sopra riportate.
Un programma caratterizzato da dogmi aprioristici. Non è accettabile un dogma “mai più condoni”, senza un’analisi di merito con capacità di discernimento fra episodi
diversi per finalità ed obiettivi. Per quale ragioni i piccoli abusi, che non rientrano in attività speculative, senza aumenti di volumi e superfici non possono
essere sanati. Pensiamo, per esempio, ai cambiamento di destinazioni d’uso, alla chiusura di balconi in edifici moderni, all’apertura di vani finestra e porte in edifici moderni, dovute alle mutate esigenze del nucleo familiare, che non alterano le caratteristiche estetiche delle costruzioni e che non introducono elementi incompatibili con i contesti territoriali e paesaggistici.
Riportiamo allarmati due criteri alla base del programma: “diritto dovere delle comunità locali, regionali e nazionali a riconoscere salvaguardare…il patrimonio
culturale”; l’estensione delle funzioni di tutela a livello di governi territoriali, ferme restando allo Stato l’attribuzione delle funzioni di alta garanzia generale, tenendo così unite la tutela, la valorizzazione e la gestione senza incorrere
nell’accentramento……..”
Non possiamo credere che l’Unione preveda per i Beni Culturali una “devolution” completa che implicherebbe ulteriori modifiche al Titolo V della Costituzione (art. 117 e 118). Possiamo solo ipotizzare che il programma in nostro possesso sia solo
una copia ancora da verificare e da emendare in più parti.
Infine ci permettiamo di segnalare un provvedimento che secondo il nostro punto di vista andrebbe adottato quanto prima: modifica radicale o cancellazione delle Direzioni Regionali.
Avevamo rimarcato lo stato di estrema confusione in cui si
trova il MiBac, dopo le ultime riforme organizzative, sia centrali che periferiche, conseguenti all’applicazione del DPR 173/2004; e avevamo posto l’attenzione sulla
necessità di porre dei rimedi immediati.
Avevamo segnalato, al riguardo, i risultati negativi, inoppugnabilmente negativi, delle Direzioni Regionali, rivelatesi corpi estranei, destabilizzanti di quel sistema di tutela antico e collaudato che, nonostante le imperfezioni e le carenze, ha dato risultati tutt’altro che negativi.
E il giudizio di negatività esula sia dai dirigenti preposti alla guida di tali uffici che dal personale che vi presta servizio. Non era difficile prevedere il fallimento di tali uffici (e la CGIL l’aveva ampiamente previsto): istituiti a costo
zero, senza incremento di personale, con funzionari e dipendenti rastrellati dagli altri uffici periferici presenti nella regione, con l’attribuzione di tutte le funzioni delle Soprintendenze di settore e con la possibilità ampia di delega.
La delega delle funzioni è demandata esclusivamente al Direttore Regionale con indirizzi ministeriali deboli e di nessuna efficacia. Il risultato ottenuto è una grande conflittualità con le Soprintendenze e l’intero territorio nazionale gestito in
modo differente per ogni realtà regionale. Oltre a non funzionare hanno diminuito l’autorevolezza e l’incisività dei singoli uffici periferici, sottraendo loro forze lavoro. L’unico risultato ottenuto è stato quello di declassare le Soprintendenze
ad uffici periferici delle Direzioni Regionali. Sarebbe il caso di intervenire.
Roma 23 gennaio 2006
Libero Rossi responsabile nazionale Fp-Cgil bac